«Voi siete quello che hanno mandato lontano, il ramo strappato al fuoco», disse la donna. «Ce n'erano altri, ma voi eravate il più probabile. Non sapevano, gli orgogliosi Comyn, che voi gli eravate stato portato via da sotto il naso. Avevano nascosto la preda all'interno della casa del cacciatore, avevano nascosto la foglia all'interno della foresta. Tutti: Cleindori, Cassilda, il terrestre, il giovane Ridenow...»
Dal cristallo parve scaturire una brillante fiammata di luce, e Kerwin trasse bruscamente il fiato, quando la luce intensa gli colpì gli occhi, ma non riuscì a chiudere le palpebre.
Poi, davanti a lui, comparve una scena, chiara e distinta, come se gli fosse stata impressa nella retina:
Due uomini e due donne, tutti in abiti darkovani, seduti attorno a un tavolo su cui era posata una matrice, posta a sua volta su un piccolo supporto di legno. Una delle donne, dall'aspetto molto fragile e dalla carnagione chiarissima, si chinava sul cristallo e stringeva i pugni, disperatamente. Il viso, incorniciato di capelli rossi, aveva un aspetto vagamente familiare... Gli uomini guardavano con attenzione, senza fare una mossa. Uno di loro aveva i capelli neri e gli occhi scuri — occhi da animale — e Kerwin pensò, senza saperne la ragione: "È il terrestre". Nello stesso tempo capì che in futuro avrebbe portato il nome di quell'uomo. Tutti continuarono a guardare con grande concentrazione le luci che danzavano sul viso della donna, come una strana aurora. Poi l'uomo alto, dai capelli rossi, si chinò sulla donna, le prese le mani e la allontanò dalla matrice. Il fuoco azzurro si spense e la donna perse i sensi e scivolò contro l'uomo dai capelli scuri...
La scena scomparve; Kerwin vide solo le nubi, la pioggia gelida che cadeva in un grande cortile. Poi scorse un corridoio dall'alto soffitto, chiuso tra due lunghe file di colonne; lungo il corridoio camminava un uomo che indossava un mantello ricamato, chiuso sulla gola da una fibbia riccamente ingioiellata, e Kerwin rimase a bocca aperta, perché era l'uomo da lui sognato nel corso dell'infanzia.
Poi la scena si trasferì in una stanza enorme. C'era la donna da lui vista in precedenza, e anche uno degli uomini. Kerwin osservava la scena da uno strano punto prospettico, troppo basso, e all'improvviso capì che era una scena alla quale aveva assistito. Per l'orrore e la paura, tremava e batteva i denti. Kerwin distolse lo sguardo dai quattro uomini raccolti attorno alla matrice, e fissò una porta, vide la maniglia ruotare lentamente; poi la porta si spalancò all'improvviso, e ne uscirono molte forme scure, che si gettarono nella stanza e bloccarono tutta la luce...
Kerwin lanciò un urlo. Non con la sua voce, ma con quella di un bambino, acuta e spaventata, un grido disperato e pieno di panico. Scivolò in avanti, sul tavolo, e la scena gli si oscurò davanti agli occhi; l'eco del grido continuò a perseguitarlo anche dopo che i singhiozzi gli fecero riprendere conoscenza.
Stordito, si passò la mano sugli occhi, lentamente, e quando la ritrasse era bagnata di sudore... o di lacrime? Confuso, scosse la testa. Non era nella grande sala buia, piena di ombre vaghe e terribili. Era nella piccola casa della donna a cui si era rivolto, il tecnico delle matrici. Il fuoco del braciere si era spento e la stanza era buia e fredda. Kerwin riusciva a malapena a vedere la donna: era crollata sul tavolo e aveva fatto rotolare via la matrice. Ma adesso nel cristallo non si scorgeva alcuna luce. Era vuoto e grigio, un qualsiasi pezzo di vetro.
Kerwin guardò la donna, con irritazione. Gli aveva fatto vedere qualcosa... ma come interpretare le immagini che lui aveva visto? E perché si era messo a gridare? Si portò la mano alla gola, cautamente, perché gli faceva male. Quando parlò, si accorse di avere la voce incrinata.
«Che diavolo era?» chiese. «Suppongo che uno degli uomini fosse mio padre; quello bruno. Ma chi erano gli altri?»
La donna non rispose; non si mosse neppure. Kerwin aggrottò la fronte. Che fosse ubriaca, drogata? Senza fare molti complimenti, la prese per la spalla. «Che immagini erano?» chiese. «Che significano? Chi erano, quelle persone?»
Lentamente, con una grazia agghiacciante, la donna scivolò a terra e vi giacque immobile, stesa su un fianco. Imprecando, Kerwin fece il giro del tavolo e si inginocchiò accanto a lei, per prestarle soccorso, anche se già sapeva quel che avrebbe visto.
La donna era morta.
CAPITOLO 6
UN NUOVO ESILIO
Kerwin aveva ancora male alla gola per il grido, ma ora cominciava a cadere in preda all'isteria. Una dopo l'altra, tutte le porte mi vengono chiuse in faccia!
Poi abbassò gli occhi sul corpo della donna, e la guardò con pietà e con un profondo senso di colpa. Era stato lui a trascinarla in quella ricerca, e adesso la donna era morta. Quella donna sconosciuta e poco attraente — una donna di cui non sapeva neppure il nome — era caduta vittima del misterioso destino che pareva accompagnare Kerwin.
Guardò anche la pietra matrice della donna, che ora, posata sul tavolo, sembrava solo un pezzo di vetro. Che fosse morta anch'essa quando era morta la sua proprietaria? Con cautela, prese la propria pietra matrice e se la appese al collo. Poi uscì e andò a chiamare la polizia.
Giunsero tutt'e due: le guardie cittadine darkovane (l'equivalente della polizia urbana, nelle città dove c'era) che parevano contrariate dalla presenza di un terrestre, e che non lo nascosero. Con riluttanza, e con una cortesia del tutto esteriore, gli permisero di chiamare un console terrestre prima di interrogarlo: un privilegio di cui Kerwin avrebbe volentieri fatto a meno. Avrebbe preferito che il Quartier Generale continuasse a ignorare il fatto che lui stesse facendo delle ricerche nella Città Vecchia.
Gli fecero parecchie domande, e non gradirono le sue risposte. Kerwin non nascose niente, a parte l'esistenza della sua pietra matrice, e il motivo che l'aveva spinto a consultare la donna. E alla fine, dato che sulla donna non si scorgevano segni di violenza, e dato che un medico darkovano e uno terrestre, indipendentemente, avevano diagnosticato una morte per insufficienza cardiaca, lo lasciarono libero e lo ricondussero allo spazioporto, sotto scorta. Gli dissero addio con una certa aria ufficiale che pareva volerlo avvertire, senza parole: se lo avessero trovato ancora una volta in quella parte della Città Vecchia, non si sarebbero ritenuti responsabili della sua incolumità.
Kerwin era convinto di essere giunto al punto più basso della sua ricerca: una strada chiusa e una donna morta. Quando si trovò di nuovo da solo nel suo alloggio, prese a camminare avanti e indietro come un animale in gabbia, e ripensò a tutto quel che era successo, analizzando i singoli fatti per scoprire se avevano un senso.
Maledizione, c'era una sorta di disegno dietro a tutto l'accaduto! Qualcuno voleva impedirgli di conoscere il suo passato. I due tecnici, fratello e sorella, avevano detto che non spettava a loro interferire nelle azioni dei vai leroni.
Era un termine che Kerwin non conosceva, e perciò cercò di analizzarne le componenti. Vai,naturalmente, era semplicemente un titolo onorifico, che significava "egregio", "degno", "eccellente", come in vai dom,che equivaleva approssimativamente a "nobile signore" o a "vostra eccellenza", a seconda del contesto. Leroni era il plurale di leronis (singolare, dialetto delle montagne), definito come: "Probabile derivazione da laran (potere o diritto ereditario, e in particolare poteri mentali ereditari); in genere si può tradurre con strega o stregone".
Ma, si chiese Kerwin, aggrottando la fronte, a che cosa poteva equivalere il termine vai leroni: gli egregi stregoni, e che diavolo c'entravano, con lui?
Mentre così rifletteva, suonò il cicalino dell'intercom. Con un brontolio, accese lo schermo, poi si preparò al peggio, nel vedere la faccia del Legato, che aveva un'aria straordinariamente cupa.
«Kerwin? Si presenti in Amministrazione. Immediatamente!»
Fece come gli era stato ordinato, e si precipitò in direzione dell'ascensore che portava all'ultimo piano del grattacielo, l'attico dalle grandi vetrate che costituiva l'ufficio del Legato Terrestre. Mentre aspettava di essere chiamato in Amministrazione, s'irrigidì nel vedere un paio di guardie cittadine, in uniforme verde; poco più tardi le vide uscire ai fianchi di un uomo alto e magro, dai capelli bianchi, riccamente vestito, che doveva appartenere alla più alta aristocrazia di Darkover. Tutt'e tre passarono davanti a Kerwin senza guardarlo, e lui ebbe la netta impressione che il peggio dovesse ancora venire.
La segretaria gli fece segno di entrare. Nell'ufficio, il Legato lo guardò con ira e questa volta non lo invitò a sedere. «Lei», disse il Legato, con irritazione. «Dovevo aspettarmelo. In che pasticcio è andato a cacciarsi, questa volta?»
Non attese la risposta di Kerwin.
«Era stato avvertito», continuò. «Si era già cacciato in un guaio prima ancora di avere trascorso una sola giornata qui su Darkover. Ma non le è bastato; è andato a cercarsene degli altri!»
Kerwin aprì la bocca per rispondere, ma neanche questa volta il Legato gli diede il tempo di parlare. «Avevo richiamato la sua attenzione sulla particolare situazione locale. Tra noi e i darkovani c'è tutt'al più una sorta di tregua, e fra i termini della tregua c'è l'accordo di tenere lontano dalla Città Vecchia i turisti ficcanaso.»
Per l'ingiustizia di quelle accuse, Kerwin si sentì ribollire il sangue.
«Signore, io non sono un turista! Io sono nato e cresciuto qui!»
«Lasci perdere», disse il Legato. «Il suo caso mi ha incuriosito, fino al punto di indurmi a fare qualche ricerca su quella storia assurda che lei mi ha raccontato, di essere nato qui. È evidente che lei si è inventato tutto, per qualche misteriosa ragione che conosce soltanto lei; non c'è traccia di altri Jeff Kerwin nel Servizio. A parte», terminò con severità, «il piantagrane che sta davanti a me.»
«È una menzogna!» protestò Kerwin, con rabbia, ma subito si fermò. L'aveva vista lui stesso, la richiesta di autorizzazione delle informazioni riservate. Ma aveva dato una mancia all'addetto all'archivio, e l'uomo rischiava il licenziamento.
«Darkover non è il mondo adatto ai ficcanaso e ai piantagrane», continuò il Legato. «L'avevo avvertita, ricorda, ma adesso vengo a sapere che ha fatto ricerche piuttosto estese...»
Kerwin cercò di calmarsi, per esporre ragionevolmente la propria causa. «Signore, se mi fossi inventato tutto, perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi di quelle che lei definisce le mie "indagini"? Mi pare che quel che è successo dimostri la verità della mia storia: qui è successo qualcosa di strano.»
«L'unica cosa che mi dimostra», rispose il Legato, «è che lei ha un complesso di persecuzione. È convinto che tutti facciamo parte di un complotto mirante a impedirle di scoprire chissà che cosa.»
«Sembra così logico, messo in questi termini, vero?» chiese Kerwin, con la voce piena di amarezza.
«Va bene», disse il Legato. «Allora, mi dia una ragione perché qualcuno perda tempo a complottare contro un piccolo impiegato del Servizio, figlio — come dice lei — di un vecchio dipendente dell'Impero, una persona che nessuno conosce? Perché ritiene di essere così importante?»
Kerwin allargò le braccia. Che poteva dire? Sapeva che erano esistiti i suoi nonni, e di essere stato rimandato a loro, ma se non c'era alcun documento, su Darkover, che si riferisse a suo padre, che cosa poteva dire? Perché la donna dell'orfanotrofio avrebbe dovuto mentirgli? Lei stessa aveva detto che l'istituto cercava di tenere i contatti con i suoi ex allievi. Che prove aveva lui, Kerwin? Forse il Legato aveva ragione... Kerwin si sentiva girare la testa.
Con un sospiro, rinunciò ai suoi ricordi e ai suoi sogni.
«Certo, signore. Mi terrò lontano da queste cose. Non farò altre ricerche...»
«Non ne avrà più l'occasione», rispose il Legato, gelidamente. «Non sarà più qui.»
«Io non...» Kerwin ebbe l'impressione di essere stato colpito da una stilettata. Il Legato annuì, guardandolo senza sorridere.
«Gli Anziani della città hanno messo il suo nome in un elenco di persone sgradite», disse il Legato. «E anche se non l'avessero fatto, la politica del Servizio è sempre stata quella di impedire che i suoi dipendenti si occupino eccessivamente di questioni locali.»
Kerwin si sentiva come se l'avessero bastonato; non riusciva a muoversi, era impallidito. «Che cosa intende dire?» chiese.
«Intendo dire che l'ho messa nell'elenco del personale per altre destinazioni», disse il Legato. «Può definirlo trasferimento, se preferisce. In parole povere, ha ficcato il naso in troppe cose, e vogliamo assicurarci che non lo faccia più. Perciò la mettiamo sulla prossima nave in partenza dal pianeta.»
Kerwin aprì la bocca, e poi la chiuse di scatto. Si appoggiò alla scrivania del Legato, come se temesse di perdere l'equilibrio. «Intende dire che vengo deportato.»
«Sì, pressappoco», confermò il Legato. «In pratica, la cosa non è così grave, naturalmente. L'ho firmata come se fosse una normale richiesta di trasferimento; Dio sa quante ne ricevo. Lei ha buone note caratteristiche, e io le scriverò una buona raccomandazione. Entro certi limiti, può scegliere qualsiasi destinazione a cui abbia diritto per anzianità; vada a controllare nella bacheca quali sono le richieste.»
Kerwin aveva un nodo alla gola, ma riuscì a dire: «Signore, Darkover... io...» e s'interruppe. Era la sua patria. Era l'unico luogo dove volesse vivere.
Il Legato scosse la testa, come se riuscisse a leggere nei pensieri di Kerwin. Aveva l'aria stanca: un uomo ormai vecchio, che era stanco di combattere contro un mondo troppo complesso per lui. «Mi dispiace, figliolo», aggiunse, gentilmente, «capisco quello che prova. Ma ho un lavoro da fare e ho poco margine di manovra. Non posso fare altro; lei salirà sulla prima nave in partenza. E non provi a chiedere un nuovo trasferimento su Darkover, perché non lo otterrà.» Si alzò. «Mi dispiace», terminò, e gli tese la mano.
Kerwin non gliela strinse. Il Legato aggrottò la fronte.
«È esonerato dal servizio a partire da questo momento. Entro ventiquattr'ore, voglio avere sul tavolo la sua richiesta di trasferimento, con l'indicazione della destinazione da lei scelta; se sarò costretto a farlo io, metterò come destinazione la colonia penale di Delta Lucifero. È consegnato nella sua abitazione fino all'ora della partenza.» Si chinò sulla scrivania e finse - di frugare tra le carte. Senza alzare la testa, disse: «Può andare».
Kerwin se ne andò. Così, aveva perso... perso su tutta la linea. Il mistero che aveva dovuto affrontare era troppo grande; si era imbattuto in qualcosa che andava completamente al di là della sua portata.
Il Legato mentiva. Si era tradito quando, alla fine, gli aveva teso la mano. Il Legato era stato costretto a mandarlo in esilio, e non era particolarmente ansioso di farlo.
Poi, tornando nelle sue stanze, Kerwin si disse di non fare lo sciocco. Che motivo aveva il Legato di mentire?
Riprese a passeggiare avanti e indietro, si recò alla finestra, fissò il sole rosso che scendeva dietro le montagne. Il Sole di Sangue. Qualche romantico poeta aveva dato alla Stella di Cottman quel nome, molto tempo prima. Quando il buio scese sui monti, Kerwin strinse i pugni.
Darkover. È la fine di Darkover, per me. Il mondo per cui ho lottato mi ha cacciato via. Ho lavorato e ho fatto piani per ritornare qui, inutilmente. Ho trovato solo frustrazioni, porte chiuse, morte...
La matrice esiste. Non l'ho sognata e non me la sono inventata. Ed essa appartiene a Darkover...
Prese la matrice e la osservò. In qualche modo, era la chiave di tutte le porte che gli erano state sbattute in faccia. Forse avrebbe dovuto mostrarla al Legato... no, il Legato sapeva perfettamente che Kerwin diceva il vero; solo, per qualche ragione, non voleva ammetterlo. Se avesse visto la matrice, si sarebbe inventato qualche altra bugia.
Kerwin si chiese come sapesse che quell'uomo mentiva. Lo sapeva,al di là di qualsiasi dubbio e di qualsiasi esitazione. Ma perché il Legato gli aveva mentito?
Tirò le tende per non vedere il buio della notte e le luci dello spazioporto sotto di lui, e posò il cristallo sul tavolo. Poi, per qualche istante, ripensò alla donna che era morta, e al terrore che lui aveva provato a causa della visione.
Pensò con allarme: Quando la donna ha guardato nella matrice, anch'io ho visto qualcosa, e ricordo di avere provato un terrore folle... Rivide il viso di una donna, le forme che si precipitavano da una porta sfondata, provò di nuovo il terrore che aveva provato quel bambino... lui?
Con severità, si disse di non fare lo sciocco. Ragan aveva usato il proprio cristallo e non era successo niente. Con un leggero imbarazzo, posò il cristallo sul tavolo e fece come aveva visto fare al tecnico delle matrici, fissandolo con grande concentrazione.
Non successe niente.
A quanto pareva, richiedeva qualche abilità particolare, e adesso Kerwin rimpianse di non avere chiesto maggiori informazioni a Ragan, di non averlo convinto, con le lusinghe o con il denaro, a insegnargli. Alzò le spalle. Ormai era troppo tardi per farlo.
Tornò a fissare il cristallo, con ira, e per un attimo vide guizzare al suo interno un gioco di luci, che gli fece venire una leggera nausea. Poi la luce svanì. Kerwin scosse la testa; la vista gli giocava uno scherzo, tutto qui. Si rammentò del vecchio trucco di coloro che leggevano nella sfera di cristallo: era solo una forma di autoipnosi, e lui doveva cercare di evitarla.
Ma la luce rimase accesa all'interno della matrice. Era un piccolo punto di colore che si muoveva all'interno della gemma. Poi, all'improvviso esplose e lo abbagliò; Kerwin si tirò indietro di scatto, come se un filo rovente gli avesse toccato il cervello. Da lontano, gli parve di sentire una voce che gridava il suo nome... no, non era precisamente una voce,non si udivano parole, ma Kerwin era certo che si rivolgesse a lui e a nessun altro, che fosse un messaggio strettamente personale. Sembrava voler dire: Tu, sì, proprio tu. Ti ho visto.
O, più precisamente: Ti ho riconosciuto.
Sorpreso, si afferrò al bordo del tavolo e scosse la testa. Gli faceva male, ma non poteva fermarsi proprio allora. Aveva l'impressione di udire parole, che per il momento erano solo sillabe irriconoscibili, un basso mormorio, appena sotto il livello della coscienza, come il brusio di un torrente che scorre fra pietre taglienti.
Sì, è lui.
A questo punto, non puoi più opporti.
Cleindori aveva preparato accuratamente questo momento, non dobbiamo sprecarlo.
Ma lui sa che cosa ha in mano, che cosa sta succedendo?
Attenti! Non fategli male! Non è abituato...
È un barbaro, un terrestre...
Per poterci essere d'aiuto, deve trovare la strada da solo e senza assistenza. Insisto su questa prova.
Abbiamo troppo bisogno di lui, non possiamo rischiare. Aiutiamolo.
Bisogno di lui? Di un terrestre?
Il tono dell'ultima voce era molto simile a quello dell'uomo dai capelli rossi che Jeff aveva incontrato al ristorante e poi all'hotel. Ma quando si voltò verso la porta, aspettandosi che fosse riuscito ad arrivare fino a lui, non vide nessuno, e tutte le voci disincarnate sparirono.
Riprese a fissare il cristallo, e di nuovo ebbe l'impressione che la sua luce si allargasse fino a coprire l'intera stanza. Nella luce scorse il viso di una donna.
Per un attimo, a causa dei capelli rossi, pensò che fosse la ragazza minuta da lui incontrata all'hotel, quella che si chiamava Taniquel. Poi comprese che era un'altra donna, a lui sconosciuta.
Aveva i capelli rossi, ma estremamente chiari e quasi biondi, e anche lei era bassa di statura e minuta. Aveva il viso tondo, infantile. Non poteva avere molto più di vent'anni, pensò Kerwin. La ragazza lo fissò, e Kerwin vide i suoi occhi grigi, ma si accorse che guardavano lontano, che non erano a fuoco sulla sua faccia.
Ho fede in voi, gli parve di sentirle dire, senza parole; o, almeno con un tipo speciale di parole, che gli echeggiava direttamente nel cervello, e abbiamo talmente bisogno di voi che lì ho convinti. Venite.
Kerwin si afferrò ancor più strettamente al bordo del tavolo.
«Dove? Dove?»gridò.
Ma nel cristallo non ardeva più nessuna luce, e il viso della ragazza sconosciuta era sparito; solo il grido di Kerwin echeggiava scioccamente sulle pareti vuote.
Aveva visto davvero quella ragazza? Kerwin si passò la mano sulla fronte e la ritrasse bagnata di sudore. Era stata solo un'illusione? S'infilò in tasca il cristallo. Non poteva perdere tempo in quel genere di cose. Doveva prepararsi alla partenza, cedere i suoi beni personali, lasciare Darkover per non fare più ritorno. Lasciarsi alle spalle i sogni, la gioventù. I vaghi ricordi e le mezze promesse, quella specie di sirene che l'avevano quasi condotto alla distruzione. Rifarsi una vita, magari meno importante, e bandire dalla mente tutto quel che non era ordinario, prosaico...
A quel punto, all'interno di Jeff Kerwin qualcosa parve esplodere: qualcosa che non aveva niente a che vedere con un tranquillo impiegato del Servizio Imperiale Terrestre, qualcosa che si sollevava sulle zampe posteriori e ruggiva minacciosamente: No.
Non intendeva accettare la sua sorte. I terrestri non potevano costringerlo ad andarsene.
Chi diavolo si credono di essere, quei maledetti intrusi in un mondo che non è il loro?
Era la voce del cristallo? No, comprese Kerwin, era la voce interiore della propria mente, che rifiutava senza possibilità di compromesso gli ordini del Legato. Darkover era il suo mondo, e, maledizione, non si sarebbe lasciato cacciare via.
Si accorse di essersi mosso meccanicamente, senza pensare, come un'altra persona che fosse rimasta sepolta a lunga dentro di lui. Prese i suoi averi e ne gettò via una gran parte; s'infilò in tasca alcuni oggetti che potevano servirgli e abbandonò tutti gli altri, senza rimpianti.
Infilò la matrice nel suo contenitore e se la appese al collo, dove nessuno poteva vederla. Fece per togliersi l'uniforme; poi, con una scrollata di spalle, decise di tenerla, ma andò a prendere il mantello darkovano ricamato che aveva acquistato il primo giorno, se lo mise sulle spalle e chiuse il fermaglio. Si controllò un'ultima volta allo specchio, poi, senza più guardarsi indietro, uscì dalla sua stanza e pensò, per un attimo, che probabilmente non l'avrebbe più rivista.
Percorse il corridoio del settore dove alloggiavano gli scapoli, poi, per risparmiare strada, attraversò la sala della mensa, che in quel momento era vuota. Giunto alla porta che dava all'esterno del settore, si fermò; una voce mentale, chiara e inconfondibile, gli disse: No, non ancora. Aspettate...
Senza capire bene perché lo facesse, Kerwin si prestò al gioco e seguì quella sorta di "ispirazione mentale"; si sedette e lasciò che passasse il tempo. Stranamente, non provava alcuna impazienza. In quell'attesa non c'era niente di imprevisto: era come quella del gatto che attende pazientemente l'uscita del topo dalla tana. Era qualcosa di certo, di... giusto. Rimase tranquillamente seduto, con le mani conserte, mormorando tra sé e sé un motivetto. Non provava alcun senso di inquietudine. Passò mezz'ora, passò un'ora, due ore; Kerwin cominciava ad avere i muscoli indolenziti, e cambiò posizione per alleviare la tensione muscolare, ma continuò ad attendere, senza sapere che cosa stesse attendendo.
Adesso, gli ordinò la voce disincarnata.
Kerwin si alzò e si avviò lungo il corridoio deserto. Nel percorrerlo rapidamente, si chiese se avessero già diramato un ordine di arresto, non avendolo trovato nei suoi appartamenti. Sì, probabilmente. E lui non aveva alcun piano, tranne quello terra-terra di disobbedire all'ordine di deportazione che gli era stato impartito dal Legato. Questo comportava che Kerwin avrebbe dovuto lasciare — inosservato — non solo il Quartier Generale, ma l'intera Zona Terrestre. Quanto a ciò che sarebbe successo poi, Kerwin non lo sapeva e, stranamente, non gli interessava.
Continuando a seguire la sua strana "ispirazione", Kerwin lasciò il corridoio principale, dove rischiava di incontrare qualche conoscente che, al termine del lavoro, si dirigeva verso i dormitori, ed entrò in un montacarichi che, a causa della sua lentezza, non veniva mai usato dagli appartenenti al Servizio Spaziale. Pensava che avrebbe fatto meglio a togliersi il mantello darkovano; se qualcuno gliel'avesse visto addosso, all'interno del Quartier Generale, avrebbe potuto mettersi a fare domande, avrebbe scoperto le sue intenzioni. Perciò, si portò la mano al fermaglio, con l'intenzione di aprirlo e di tenere il mantello sul braccio; vestito della sola uniforme, era uno dei tanti appartenenti al Servizio che percorrevano quei corridoi.
No.
Chiaro, inconfondibile, echeggiò nella sua mente l'avvertimento. Stupito, abbassò la mano e rinunciò a togliersi il mantello. Uscito dal montacarichi, s'infilò in uno stretto corridoio e si soffermò per qualche istante, per orientarsi: si trovava in una zona del grattacielo che gli era sconosciuta. Alla fine del corridoio si scorgeva una porta: Kerwin la aprì e scorse una sala affollata. Qua e là si aggirava un'intera squadra di operai della manutenzione, in tuta, che aveva terminato l'orario di lavoro. Inoltre, un folto gruppo di darkovani nei loro costumi caratteristici si faceva strada in mezzo alla folla, diretto verso l'uscita. In un primo momento, Kerwin fissò con timore la folla, poi tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che nessuno badava a lui.
Lentamente, senza farsi notare, attraversò la sala e s'infilò in mezzo al gruppo di darkovani: nessuno parve accorgersi della sua presenza. Kerwin pensò che doveva trattarsi di qualche delegazione venuta dalla Città, di una delle commissioni che si occupavano dei commerci con la Zona Terrestre. Costituivano una piccola corrente in mezzo alla folla, diretta per la propria strada, e Kerwin si tenne ai margini del gruppo, uscì insieme con gli altri e raggiunse la strada, arrivò al cancello del Quartier Generale e uscì. Le guardie terrestri diedero ai darkovani — e a Kerwin — solo una breve occhiata.
Una volta all'esterno, il gruppo darkovano si sciolse in piccoli gruppetti che andavano ciascuno per la propria strada, chiacchierando e soffermandosi davanti a qualche portone. Uno degli uomini guardò Kerwin con curiosità, come se si aspettasse una spiegazione sulla sua presenza, ma Kerwin si limitò a salutarlo cortesemente, si girò e si avviò lungo una strada laterale.
La Città Vecchia era già avvolta nell'oscurità della sera. Soffiava un vento gelido e Kerwin rabbrividiva leggermente, nonostante il pesante mantello. Dove stava andando? si chiese.
Si soffermò per qualche istante all'incrocio della strada dove pochi giorni prima, in un ristorante, aveva parlato con Ragan. Doveva entrare nel ristorante e cercare il mezzo-sangue per controllare se poteva essergli utile?
Anche ora gli giunse chiaramente il no mentale del suo protettore. Kerwin si chiese se non fossero allucinazioni. Be', anche se lo erano, pensò poi, la cosa aveva poca importanza: fino a quel momento, allucinazione o no, gli era servita a uscire dal Quartier Generale; perciò, per il momento, avrebbe continuato ad ascoltare la sua voce mentale. Si girò a guardare il grattacielo del Quartier Generale Terrestre, che cominciava già a sparire nella nebbia della sera, poi gli voltò decisamente la schiena, come se mentalmente gli avesse sbattuto la porta in faccia. Con il Servizio, si disse, era finita. Lui si era tagliato fuori e non intendeva ritornare indietro.
Con quella decisione gli parve che fosse scesa su di lui una strana pace. Voltò la schiena alle strade conosciute e cominciò tranquillamente ad allontanarsi dalla zona commerciale terrestre.
Non si era mai addentrato così profondamente nella Città Vecchia, neanche il giorno in cui era andato a cercare il meccanico delle matrici, la donna che era morta per lo shock. Nella zona in cui si trovava, gli edifici erano antichi, costruiti nella stessa pietra dall'aspetto vetroso che Kerwin aveva già notato nella pavimentazione delle strade, e facevano sembrare ancor più freddo il vento della sera. A quell'ora c'era poca gente per strada; di tanto in tanto si scorgeva un passante isolato, in genere un lavoratore, con indosso uno dei nuovi giubbotti sintetici messi in commercio dai terrestri, che camminava a capo chino per proteggersi dal vento; Jeff vide anche una donna, portata sulle spalle da quattro uomini su una lettiga chiusa; e più tardi un appartenente a una delle razze non umane di Darkover, un uomo delle foreste, passò silenziosamente accanto a lui e lo guardò con il volto privo di espressione.
Un gruppo di ragazzi di strada, scalzi e male in arnese, si avvicinò a lui come se volessero chiedergli l'elemosina; poi, all'improvviso, si trassero indietro e si allontanarono, bisbigliando tra loro. Che fosse per il mantello da lui indossato, o che avessero scorto i suoi capelli rossi sotto il cappuccio?
La nebbia si stava infittendo; adesso cominciava anche a cadere la neve, sotto forma di fiocchi spessi e pesanti; Kerwin vide che si era perso in mezzo alle stradine della Città Vecchia. Aveva continuato a camminare quasi a caso, voltando a sinistra o a destra in base all'impulso del momento, con la strana sensazione di vivere in un sogno, nel quale non aveva importanza la direzione che si sceglieva. Adesso, però, accorgendosi di essere giunto in un'enorme piazza, e di non avere alcuna idea della distanza percorsa da quando aveva lasciato il Quartier Generale Terrestre, si fermò e scosse la testa, sorpreso, ritornando alla sua normale personalità.
Buon Dio, dove sono finito? E dove sto andando? Non posso girare tutta la notte sotto la neve, neanche con un mantello darkovano sopra la mia uniforme. Per prima cosa, avrei dovuto cercare un posto dove nascondermi. Oppure avrei dovuto lasciare la città prima di richiamare l'attenzione su di me.
Stupito, si guardò attorno. Per un attimo fu tentato di ritornare al Quartier Generale e di accettare la punizione che gli sarebbe toccata, ma poi si disse di no. La punizione gli era già stata assegnata, ed era l'esilio. Lui aveva preso la decisione di fuggire, e non intendeva ritornare su quella decisione. Ma la curiosa ispirazione che l'aveva guidato fino a quel momento sembrava essersi progressivamente esauritale adesso non lo aiutava più. Si guardò attorno, togliendosi meccanicamente i fiocchi di neve dalla faccia e cercando di decidere la direzione da prendere. Su un lato della piazza si scorgeva una fila di negozi, ora chiusi per la notte. Kerwin si asciugò la fronte, con la manica, e studiò la grande casa isolata che si scorgeva dall'altro lato della piazza e che doveva essere la casa di città di qualche nobile delle province.
All'interno si scorgevano alcune luci e si vedevano alcune figure muoversi dietro le finestre. Richiamato quasi magneticamente dalle luci, Kerwin attraversò la piazza e si fermò davanti al cancello, che era aperto. Poco più avanti, si scorgevano alcuni scalini che salivano fino a un portone riccamente scolpito. Kerwin si fermò davanti al cancello, cercando di vincere l'attrazione che lo portava a entrare in quella casa.
Che mi è preso? Non posso semplicemente entrare in casa di gente che non conosco. Sono impazzito?
No. Il luogo è questo. Mi stanno aspettando.
Anche se continuò a ripetersi che era una follia, i piedi lo portarono verso la casa, meccanicamente. Appoggiò la mano al cancello, e, dopo qualche istante, nel vedere che non succedeva niente, entrò e si soffermò davanti al primo gradino. Si fermò di nuovo, diviso tra la ragione e la follia, e — quel che era peggio, pensò Kerwin — senza sapere quale fosse l'una e quale fosse l'altra.
Siete arrivato fino a noi. Non potete fermarvi proprio adesso.
Non fare l'idiota, Jefferson Andrew Kerwin. Togliti dai piedi... gira sui tacchi e scappa, prima di imbatterti in qualcosa di troppo grosso per te. E non solo una bazzecola come prenderti una botta in testa e finire a faccia in giù nella neve.
Un passo dopo l'altro, lentamente, salì sugli scalini resi viscidi dalla neve e si avvicinò alla porta dietro cui si scorgeva la luce. Ormai, pensò, è troppo tardi per tirarsi indietro. Afferrò la maniglia, e notò che aveva una forma curiosa: rappresentava una fenice. La ruotò lentamente, e la porta si spalancò. Kerwin fece un passo all'interno.
Ad alcuni chilometri di distanza, nella Zona Terrestre, un certo uomo di sangue misto accese un comunicatore e compose il numero segreto che lo metteva direttamente in contatto con il Legato.
«L'uccellino ha preso il volo», disse.
Sullo schermo, il Legato sorrise soddisfatto, con aria astuta.
«Me l'aspettavo. Bastava spingere sufficientemente forte, e anch'essi hanno finito per dover fare una mossa. Sapevo che non ci avrebbero permesso di deportarlo.»
«Se mi è permesso, signore, lei mi sembra un po' troppo sicuro di sé. A parer mio, potrebbe semplicemente essere un colpo di testa del nostro amico: da un momento all'altro ha deciso di "saltare il fosso" e di diventare darkovano. Non sarebbe il primo che lo fa. E neppure il primo chiamato Kerwin.»
Il Legato alzò le spalle. «Può darsi. Lo verremo a sapere presto.»
«Allora, dobbiamo continuare a tenerlo sotto sorveglianza?»
«No!» rispose immediatamente il Legato. «Diavolo, no! Quelle persone non sono certamente degli sciocchi! Nella condizione in cui si trovava, non era in grado di accorgersi di essere seguito, ma è matematicamente sicuro che quelli se ne accorgerebbero subito! Lasciamolo andare, niente cordoni ombelicali. In questo momento, spetta a loro muovere. A noi, invece, attendere.»
«È quello che facciamo da più di vent'anni», brontolò l'uomo.
«E ne attenderemo altri venti, se ce ne sarà bisogno. Ma adesso l'elemento nuovo è all'opera: non penso che occorrano altri vent'anni. Aspetteremo e vedremo.»
Lo schermo si spense. Dopo qualche tempo, il Legato schiacciò alcuni tasti per comporre il codice d'accesso all'archivio KERWIN.
Nel farlo, aveva un'aria molto soddisfatta.
CAPITOLO 7
RITORNO A CASA
Kerwin batté alcune volte le palpebre, sorpreso dalla luce e dal calore incontrati nello spazioso atrio della casa. Si passò di nuovo la mano sulla faccia, per togliere la neve, e per un momento le uniche cose che riuscì a notare furono il vento e la neve della piazza, che colpivano la porta d'ingresso. Poi il silenzio venne interrotto da un allegro scoppio di risate.
«Elorie ha vinto», disse una ragazza dalla voce chiara e argentina, che, in qualche modo, Kerwin aveva l'impressione di conoscere. «Ve l'avevo detto.»
Una pesante tenda di velluto si aprì, proprio davanti a Kerwin, e comparve una ragazza giovane e snella. Aveva i capelli rossi e indossava un abito verde chiuso al collo; aveva un viso carino e allegro, da folletto, e in quel momento guardava Kerwin e sorrideva. Poi la tenda si aprì una seconda volta e comparvero due uomini... e Kerwin si chiese se fosse un'allucinazione (o un incubo?). Infatti erano le tre persone da lui incontrate all'hotel dello spazioporto: la ragazza carina era Taniquel, e dietro di lei sopraggiungevano il felino e arrogante Auster, e il massiccio, cortese uomo di mezz'età che si era presentato come Kennard. Fu Kennard a prendere la parola.
«Perché, avevi qualche dubbio, Taniquel?» chiese.
«Il terrestre.»commentò Auster, in tono sprezzante, e continuò a guardare Kerwin con irritazione. Kennard spostò gentilmente Taniquel e si diresse verso Kerwin, che li guardava senza capire, e che si chiedeva se non fosse il caso di scusarsi per l'intrusione, fare dietro-front e andarsene. Ma Kennard si fermò davanti a Kerwin e gli disse sorridendo: «Benvenuto a casa, figliolo».
Dietro di lui, Auster fece un commento offensivo. Sulle labbra gli comparve un sorriso ironico.
Kerwin li guardò tutt'e due, senza capire, e infine scosse lentamente la testa. «Non capisco niente di tutto questo», disse infine.
«Allora», ribatté Kennard, «spiegateci una cosa. Come avete trovato questa casa?»
Troppo stupito per pensare a mentire, Kerwin rispose la verità: «Non saprei. Ho scelto a caso la direzione. Una sorta di sesto senso, un'intuizione...»
«No», rispose Kennard, scuotendo la testa, con gravità, «era una prova, e voi l'avete superata.»
«Una prova?»All'improvviso, Kerwin provò una forte irritazione, mista a un senso di allarme. Fin da quando era atterrato su Darkover, qualcuno l'aveva manovrato,costringendolo a correre qua e là; e adesso che credeva di avere fatto una mossa autonoma e indipendente per fuggire, scopriva di essere stato guidato fino a quel palazzo.
«Suppongo di dovervi ringraziare, ma al momento quella che vorrei è soprattutto una spiegazione! Una prova! E per provare che cosa? Inoltre, chi siete, voi? Che cosa volete da me? Continuate a confondermi con un'altra persona? Ma chi credete che sia?»
«Non chi»,rispose Taniquel, «ma che cosa.»
E nello stesso tempo Kennard disse: «Non c'è stata nessuna confusione. Abbiamo sempre saputo chi eravate. Però, dovevamo scoprire se...»
I due s'interruppero, si fissarono e risero. Poi la ragazza disse: «Diglielo tu,Kennard. Dopotutto, è parente tuo!»
Kerwin sollevò di scatto la testa e li fissò. Kennard disse: «Tutti noi siamo vostri parenti, se è solo per questo. Ma io ho capito chi eravate, o almeno l'ho sospettato, fin dall'inizio. E anche se non l'avessi capito, me lo avrebbe rivelato la vostra matrice, perché l'ho già vista in passato e ho perfino lavorato con essa. Ma dovevamo mettervi alla prova, per vedere se avevate ereditato il laran,il Potere, e se quindi eravate davvero uno dei nostri».
Kerwin aggrottò la fronte, senza capire. Poi chiese: «Che cosa intendete dire? Io sono un terrestre».
Ma Kennard scosse la testa e rispose: «Può darsi. Ma tra noi, il figlio eredita il rango e i privilegi del genitore di casta più alta. E vostra madre era una donna dei Comyn: la mia sorella adottiva, Cleindori Aillard».
Nella stanza scese bruscamente il silenzio, e Kerwin sentì echeggiare e riecheggiare quella parola, Comyn.
«Come ricorderete», riprese Kennard, «vi abbiamo preso per uno di noi, quella sera all'hotel dello spazioporto. Non eravamo lontani dalla verità come credevamo... e neppure come ci avete detto voi.»
Auster li interruppe di nuovo per pronunciare qualcosa di incomprensibile. Strano, pensò Kerwin, come riuscisse a capire tutto quel che dicevano Taniquel e Kennard, e come non riuscisse ad afferrare una sola parola di quel che diceva il giovane.
«Vostra sorella adottiva?» chiese Kerwin. «Chi siete, voi?»
«Kennard-Gwynn Lanart:Alton, erede di Armida», rispose l'uomo anziano. «Io e vostra madre siamo cresciuti insieme, e perciò siamo fratelli adottivi. Inoltre siamo anche parenti di sangue, ma si tratta di un rapporto alquanto complesso. Quando Cleindori è... morta... voi siete stato portato via; siete stato rapito di notte, con un raggiro. Noi abbiamo cercato il figlio di Cleindori, ma a quell'epoca c'era...»
S'interruppe per un istante, poi riprese: «Non è che cerchi di tenere segreti certi avvenimenti, vi do la mia parola. Solo, non riesco a immaginare un modo semplice per chiarirvi la situazione senza raccontarvi una lunga storia delle lotte politiche che hanno avuto luogo quarant'anni fa nei Regni di Darkover.
«Insomma, ci sono state alcune... complicazioni, e quando abbiamo scoperto dove eravate, abbiamo deciso di lasciarvi laggiù per un breve tempo; almeno, sapevamo che laggiù eravate al sicuro. Poi, quando eravamo pronti a riprendervi, abbiamo scoperto che vi avevano già mandato sulla Terra. Non potevamo fare altro che attendere. Ero ragionevolmente sicuro della vostra identità, quella sera all'hotel. E, poi, su uno degli schermi di controllo è comparsa anche la vostra matrice...»
«Come?»
«Non posso spiegarmi adesso. Esattamente come non posso spiegare la stupidità di Auster quando vi ha incontrato al bar, a parte il fatto che aveva bevuto. Naturalmente, neanche voi avete dato prova di un grande spirito di collaborazione...»
Anche adesso, Auster mormorò alcune frasi incomprensibili, ma dal tono carico d'irritazione, e Kennard gli indicò di tacere. «Risparmia il fiato, Auster, non capisce neppure una parola di quel che gli dici.» E, rivolto a Kerwin: «Avete superato la prima prova: possedete almeno una forma rudimentale di Potere. E per quello che siete, e per certi altri motivi, vedremo se ne avete a sufficienza per esserci utile. Mi pare di capire che volete rimanere su Darkover; noi vi offriamo la possibilità di farlo».
Ancora stupito di tutto quel che stava succedendo, e preso di contropiede dall'affermazione dell'uomo dai capelli grigi, Kerwin non poté fare altro che fissarlo. Vagamente, però, aveva l'impressione che tutte le sue spiegazioni non facessero che confondere ulteriormente le carte.
Comunque, pensò, lui aveva seguito la sua intuizione, e se l'aveva fatto cadere dalla padella nella brace, non aveva da lamentarsi che con se stesso.
Be', eccomi qua, pensò. Il solo guaio è che non ho la minima idea di dove sia "qua".
«Dove mi trovo?» chiese. «È qui...» ripeté la parola che aveva sentito da Kennard, «Armida?»
Kennard sorrise e scosse la testa. «Armida è il grande castello del Regno di Alton», spiegò. «È nei Monti Kilghard, e, a cavallo, occorre più di una giornata di viaggio per raggiungerlo. Ora ci troviamo nella residenza cittadina della mia famiglia. La cosa corretta da farsi sarebbe stata quella di portarvi davanti ai Comyn del Castello; ma ci sono alcuni Comyn che non vogliono avere niente a che fare con questo...» cercò la parola adatta, «...questo esperimento finché non succederà qualcosa, in un senso o nell'altro. E abbiamo preferito limitare il numero delle persone al corrente di quel che stava succedendo.»
Kerwin si guardò attorno e rivolse un'occhiata ammirata ai ricchi tendaggi, alle pareti coperte di arazzi. Il luogo aveva un aspetto vagamente familiare e insieme estraneo, come se gli fosse apparso in uno di quei sogni dimenticati da tempo. Come se gli avesse letto nella mente la domanda, Kennard rispose ai suoi interrogativi muti:
«Può darsi che siate stato qui un paio di volte, quando eravate molto piccolo. Non so se siate in grado di ricordarlo, però. Comunque...» si girò verso Taniquel e Auster, «...dovremmo partire non appena possibile. Preferirei lasciare la città immediatamente. Inoltre, Elorie ci aspetta.»
Aggrottò le sopracciglia e tornò a rivolgersi a Kerwin: «Non c'è bisogno che ve lo dica, ma ci sono... certe persone... che non approverebbero tutto questo; perciò, vogliamo mettere loro, davanti agli occhi, un fatto compiuto». Con gli occhi, parve trapassare Kerwin nel dire: «Siete già stato aggredito una volta, mi pare».
Kerwin non perse tempo a chiedersi dove l'avesse saputo. Si limitò a rispondere: «Sì», e Kennard gli rivolse un cenno d'assenso, con la faccia cupa.
«All'inizio», spiegò il darkovano, «ho pensato che fosse Auster. Ma lui mi ha giurato di non averne colpa. Avevo sperato che quei vecchi ricordi — odio, superstizione, violenza — si fossero ormai spenti, dopo una generazione, ma non è così.» Con un sospiro, si girò verso Taniquel.
«Lasciatemi solo il tempo di augurare la buona notte ai bambini», disse. «Poi sarò pronto a partire.»
Un piccolo aereo, agitato dai venti incostanti e dalle correnti che si levavano dalle spaccature tra i monti, volava nel cielo che cominciava ad arrossarsi per le prime luci dell'alba. Si erano lasciati alle spalle la tempesta di neve; ma il terreno accidentato, molto al di sotto della quota a cui. volavano, era coperto da uno strato di nebbia.
Kerwin sedeva a gambe incrociate, in una posizione quanto mai scomoda, e guardava Auster che manovrava i comandi. Avrebbe preferito evitare di dividere la piccola cabina di pilotaggio con Auster, ma nella cabina posteriore c'era appena posto per Kennard e Taniquel, e nessuno gli aveva chiesto la sua opinione. Era ancora stupito dalla velocità con cui si erano svolti gli avvenimenti. Poco dopo essere arrivato alla residenza di Kennard e avere fatto la conoscenza dei suoi compagni, era stato condotto in un piccolo aeroporto privato, ai margini della città, e laggiù l'avevano fatto salire su quell'aereo. Se non altro, si era detto, adesso ne sapeva più del Legato terrestre, il quale non era mai riuscito a capire come i darkovani usassero gli aerei che acquistavano dall'Impero.
Kerwin non aveva ancora capito che cosa desiderassero da lui, ma non aveva paura. Non si comportavano con lui in modo esattamente amichevole, ma in qualche modo... be', lo avevano accettato,un po' come gli era successo sulla Terra, con i nonni; la cosa non aveva niente a che vedere con il suo carattere e la sua personalità, o con il fatto che lo trovassero simpatico — e Auster, chiaramente, non lo trovava simpatico — semplicemente, lo avevano accettato come un membro della famiglia. Così, anche quando Kennard aveva interrotto bruscamente le sue domande alzando la mano e dicendo: «Dopo, dopo!» Kerwin non aveva trovato niente di offensivo nelle sue parole.
Sull'aereo non si scorgeva alcuno strumento di navigazione, a parte qualche levetta. Auster ne aveva tirato una quando erano saliti, scusandosi per il fastidio, e subito si era levata una vibrazione che aveva ferito le orecchie di Kerwin. In poche parole, Auster gli aveva poi detto che era una misura necessaria, occorrente a compensare, all'interno dell'aereo, la presenza di un telepatico non addestrato.
Da quel momento in poi, Auster non si era più mosso dalla sua posizione, e si era limitato, di tanto in tanto, a sollevare lentamente una mano, come per fare un segnale a qualche invisibile osservatore. O, si disse Kerwin, come per cacciare via le mosche. Una volta, si era rivolto ad Auster e gli aveva chiesto che genere di motore tenesse in aria l'aereo.
«Cristalli matrice», aveva risposto il giovane, concisamente.
Nell'udire questa frase, Kerwin sporse le labbra, come per zufolare tra sé. Non aveva mai pensato che il potere di quei cristalli sensibili al pensiero riuscisse ad arrivare a tanto. Non si trattava semplicemente di poteri mentali. Kerwin ne era certo. Da quel che Ragan gli aveva detto e dal poco che aveva visto, Kerwin aveva capito che la tecnologia delle matrici era una delle scienze che i terrestri raccoglievano sotto l'etichetta comune di "scienze a-causali", come la chiaroveggenza, l'elettrodinamica mentale e la psicocinesi. Kerwin non ne sapeva molto, ma ricordava che si incontravano in genere sui mondi non tecnologici. Tuttavia, le matrici facevano da amplificatori per quei poteri mentali e permettevano di raggiungere livelli che su nessun altro pianeta erano mai stati raggiunti.
Kerwin ne era affascinato, ma non poteva negare che, sotto l'inequivocabile fascino, ne era anche un po' allarmato. Tuttavia, non si era mai considerato un vero terrestre, tranne che per il caso che l'aveva fatto nascere da un padre di quel pianeta. L'unica patria che avesse mai conosciuto era Darkover, e adesso aveva avuto la prova di essere darkovano, non solo, ma anche di appartenere alla massima nobiltà del pianeta, i Comyn.
I Comyn. Kerwin non sapeva molto, su di loro, a parte quel che sapeva ogni terrestre in missione su Cottman IV, ossia ben poco. Erano una casta ereditaria che cercava di ridurre al minimo i propri contatti con i terrestri, anche se avevano ceduto all'Impero Terrestre l'uso dello spazioporto e avevano autorizzato la costruzione della Città Terrestre. Non erano re, e neppure autocrati, sacerdoti, o governanti; a dire il vero, Kerwin sapeva soprattutto quello che non erano i Comyn, più che quello che erano. Ma aveva visto con quale devozione fanatica venivano trattati i nobili dai capelli rossi.
Cercò cautamente di muovere le gambe senza fare danni ai portelli. «Quanto dista la vostra città?» chiese ad Auster.
Il giovane non lo guardò. Era molto magro, e per la forma delle spalle, per la piega arrogante della bocca, aveva qualcosa di felino; ma aveva anche qualcosa di familiare, che Kerwin non sarebbe riuscito a definire. Be', erano tutti parenti, aveva detto Kennard. Forse, la familiarità che Kerwin credeva di scorgere era dovuta al fatto che Auster gli assomigliava.
«Qui non parliamo il cahuenga»,disse Auster, sbrigativamente, «e non posso capirvi, né voi capire me, con lo smorzatore telepatico.» Indicò la levetta che aveva regolato qualche minuto prima.
«Cosa non va nel dialetto cahuenga?»chiese Kerwin. «Voi lo parlate perfettamente... vi ho sentito io.»
«Siamo in grado di farci capire in qualsiasi lingua umana», rispose Auster, con quell'arroganza che, all'orecchio di Kerwin, suonava maledettamente irritante, «ma i concetti del nostro mondo si possono esprimere solo in connessione con la nostra simbologia semantica, e non ho intenzione di discorrere nella lingua degli uomini-rettile, con un mezzo-sangue, di questioni banali.»
Kerwin fece fatica a non dargli un pugno. Ormai era stanco della sua vecchia battuta sugli uomini coccodrillo, ed era ancor più stanco di sentirsela rinfacciare da Auster ogni volta che apriva la bocca. Non aveva mai conosciuto nessuno che riuscisse a suscitare così rapidamente l'antipatia come Auster, e se quell'uomo era davvero un suo famigliare, evidentemente il sangue non era un legame così forte come si supponeva. Si sorprese a chiedersi di che grado fosse la loro parentela. Non molto stretto, si augurò.
Il sole si era appena arrampicato al di sopra delle montagne, quando Auster si mosse leggermente, rinunciò alla sua aria ironica e indicò un passo tra le montagne.
«Laggiù», spiegò, «si stende la Piana di Arilinn, con la città e la Torre di Arilinn.»
Kerwin mosse a fatica le spalle e guardò in basso, in direzione della città dei suoi padri. Da quella quota pareva uguale a ogni altra città: una struttura regolare di luci, strade, edifici, piazze. A una mossa delle mani di Auster, il piccolo aereo cominciò a scendere; Kerwin, che non se l'aspettava, perse l'equilibrio e mosse istintivamente le mani per afferrarsi a qualcosa, e involontariamente finì contro Auster.
La reazione di questi fu del tutto imprevedibile. L'uomo lasciò i comandi e, con un ampio gesto del braccio, si tirò indietro. Con il gomito, finì contro Kerwin, e lo colpì violentemente sulla bocca. L'aereo sobbalzò e cominciò a precipitare; dietro di loro, nella cabina dei passeggeri, Taniquel lanciò un grido. Allora, in un attimo, Auster si riprese e raddrizzò l'apparecchio.
Kerwin lasciò svanire il primo impulso: quello di colpire Auster sul gnigno, succedesse quello che doveva succedere. Mantenendosi immobile con un grande sforzo di volontà, si limitò a serrare i pugni. Mormorò, in cahuenga: «Mantenete sulla rotta questo maledetto aereo, voi. Se avete voglia di fare a pugni, abbiate almeno la compiacenza di aspettare che siamo a terra, e sarò lietissimo di servirvi».
Dallo stretto passaggio tra le due cabine si affacciò Kennard; chiese qualcosa, in tono preoccupato, parlando in una lingua che Kerwin non conosceva, e Auster ringhiò: «Allora, che tenga lontano da me le sue zampe da coccodrillo, accidenti a lui!»
Kerwin aprì la bocca per protestare — era stato il movimento brusco di Auster a farlo finire contro di lui, e non viceversa — ma poi la richiuse. Non aveva fatto niente di cui si dovesse giustificare!
Kennard disse, in tono conciliante: «Kerwin, forse non sapete che qualsiasi movimento brusco può squilibrare l'aereo, quando viaggia sotto la spinta delle matrici». Fissò Kerwin, con aria pensierosa, e poi si strinse nelle spalle. «Comunque, tra poco atterreremo», concluse.
Il piccolo aereo scese senza scosse su un piccolo campo dove ammiccavano alcune luci. Auster aprì il portello e un robusto darkovano, con giubba e calzoni di pelle, portò una scaletta.
«Benvenuti, vai dom'yn»,disse, sollevando una mano in un accenno di saluto. Auster scese a terra e fece segno a Kerwin di imitarlo, e anche Kerwin venne salutato allo stesso modo. Poi fu la volta di Kennard, che scese a tentoni, faticando a trovare con i piedi gli scalini. Fino a quel momento, Kerwin non si era reso conto che era quasi invalido e che aveva una gamba paralizzata; uno degli inservienti accorse, con deferenza, ad aiutarlo, e Kennard accettò di buona grazia il suo braccio.
Taniquel scese rapidamente a terra; aveva l'aria assonnata e contrariata. Disse qualcosa ad Auster, aggrottando la fronte: per qualche istante, i due parlarono tra loro a bassa voce. Kerwin si chiese se fossero sposati, o fidanzati; avevano quell'aria di confidenza che secondo lui caratterizzava le coppie sposate da molto tempo. Poi la ragazza alzò gli occhi verso Kerwin, e scosse la testa.
«Avete del sangue sulla bocca», disse. «Voi e Auster avete già cominciato ad azzuffarvi?»
Lo disse con una certa malizia nella voce. Inclinò la testa da un lato, e prima guardò Kerwin, poi Auster. Questi la fissò con ira.
«C'è stato un incidente, e un malinteso», disse Kennard, tranquillamente.
«Terrestre», mormorò Auster, scuotendo la testa.
«Non puoi pretendere che non lo sia», disse Kennard. «E di chi è la colpa, se non conosce le nostre leggi?» Poi alzò il braccio, come per indicare qualcosa di importante, e Kerwin seguì con lo sguardo quella direzione.
«Eccola laggiù», disse Kennard. «La Torre di Arilinn.»
Era una costruzione alta e tozza, che, a osservarla attentamente, risultava ancor più alta di quanto non sembrasse a prima vista. Era costruita in una pietra chiara che non mandava alcun riflesso, e nel vederla Kerwin ebbe di nuovo l'impressione di avere già vissuto una volta quell'esperienza, di avere già visto la mole della Torre sullo sfondo del cielo del mattino. Con voce tremante, chiese: «Sono... sono già stato qui in passato, signore?»
Kennard scosse la testa. «Non credo», rispose. «Forse, è un'impressione dovuta alla matrice: le gemme tendono a impregnarsi dei pensieri di coloro che le usano. Non saprei dire. Vi sembra una vista familiare?» Per un istante, gli posò la mano sulla spalla: un gesto che stupì Kerwin, il quale aveva l'impressione che tra loro ci fosse una sorta di tabù, che vietava quel genere di contatti fisici.
Kennard si affrettò a tirare indietro la mano e disse: «Non è la più antica, e neppure la più potente delle Torri dei Comyn. Ma per cento generazioni e più i nostri Guardiani hanno lavorato nella Torre di Arilinn in un'ininterrotta successione di persone di sangue Comyn».
«E con la centounesima», disse Auster, dietro di loro, «con la centounesima vi portiamo il figlio di un terrestre e di una Sapiente rinnegata!»
Taniquel si girò verso di lui, con rabbia. «Vorresti mettere in dubbio le parole di Elorie di Arilinn?» chiese.
Anche Kerwin si voltò con ira verso Auster. Aveva già sopportato fin troppo da quell'uomo; adesso se la prendeva addirittura con i suoi genitori! Il figlio di un terrestre e di una Sapiente rinnegata...
Kennard disse con severità:
«Auster, basta così; l'ho detto prima che venissimo qui, e lo ripeto per l'ultima volta. Quest'uomo non è responsabile dei suoi genitori o delle loro pretese colpe. E Cleindori, ti ricordo, era mia sorella adottiva, ed era la mia Guardiana, e se parlerai ancora male di lei come hai fatto ora, non dovrai risponderne a suo figlio, ma direttamente a me!»
Auster abbassò la testa e mormorò qualche parola di scusa. Taniquel si avvicinò a Kerwin e disse: «Entriamo! Non vorrete rimanere sul campo di volo per tutta la giornata!»
Kerwin si sentiva tutti gli occhi puntati addosso, nell'attraversare il campo. L'aria era umida e fredda; per un attimo pensò che sarebbe stato bello avere un tetto sulla testa, un bel fuoco, e riposare, e che gli sarebbe piaciuto fare un bagno, avere un drink, un po' di cena... di colazione, anzi! Del resto, non aveva chiuso occhio per tutta la notte.
«Tutto a tempo debito», gli disse Kennard; Kerwin trasalì: non si era ancora abituato a quel suo trucchetto di leggergli nei pensieri. «Prima, però, dovrete fare la conoscenza degli altri componenti del gruppo. Naturalmente, anche noi siamo ansiosi di sapere tutto di voi, soprattutto coloro che non hanno ancora avuto la possibilità di conoscervi di persona.»
Kerwin si pulì il sangue che gli usciva ancora dal labbro. Sperò che gli dessero la possibilità di ripulirsi, prima di presentarlo a qualche estraneo. Non aveva ancora avuto il tempo di accorgersi che i telepatici non prestavano alcuna attenzione all'aspetto esteriore di una persona. Passò davanti a un edificio squadrato, di mattoni, che sembrava una caserma e si avviò lungo un corridoio che conduceva a una porta di legno. Dall'odore che gli colpì le nari, dedusse che nella zona doveva esserci una scuderia. Solo quando giunse nei pressi della Torre si accorse che i bassi edifici che la circondavano finivano per avvilire la purezza della sua linea architettonica. Dovettero attraversare altri due cortili prima di raggiungere un arco riccamente scolpito, all'interno del quale si vedeva luccicare una nebbiolina traslucida, simile a una tendina immateriale.
Giunto davanti alla nebbia luminescente, Kennard si fermò per alcuni istanti e spiegò, rivolto a Kerwin: «Nessun essere umano è mai riuscito ad attraversare il Velo, tranne quelli di puro e immacolato sangue Comyn».
Kerwin alzò le spalle. Avrebbe dovuto mostrarsi sorpreso, ma ormai aveva esaurito la sua capacità di sorprendersi. Era stanco e affamato, non dormiva da quarantott'ore e sapeva che tutti, compreso Auster, lo stavano guardando, per vedere come avrebbe reagito a quella prova. La cosa lo innervosiva; rispose, con irritazione: «Che cos'è, un altro esame? Ho finito gli assi da tirare fuori dalla manica, e, comunque, qui le regole le dettate voi. Devo entrare?»
Nessuno parlò. Così, Kerwin si fece coraggio ed entrò nella nebbia traslucida.
Sentì come una vaga corrente elettrica, o come migliaia di punture di spillo: la stessa sensazione che si prova quando in un piede o in un braccio ritorna la circolazione. Guardandosi alle spalle, non riuscì a distinguere gli altri: vide solo qualche ombra confusa. Cominciò a tremare: che tutto quel che gli era accaduto non fosse altro che una trappola? Si trovò in una nicchia senza finestre, illuminata soltanto dalla luce che proveniva dalla nebbia.
Poi anche Taniquel attraversò il Velo, seguita da Auster e da Kennard. Kerwin trasse un sospiro di sollievo; se avessero voluto fargli del male, non si sarebbero avvicinati a lui!
Taniquel mosse le mani come le aveva mosse Auster per guidare l'aereo, e l'intera nicchia si sollevò di scatto, come se fosse la cabina di un ascensore, ma con una tale rapidità che Kerwin per poco non perse l'equilibrio. Dopo un breve percorso, la cabina si fermò; Kerwin si trovò davanti a un passaggio che portava a un'ampia stanza. In fondo alla stanza si scorgeva una serra.
La stanza era grande e piana di echi; tuttavia, paradossalmente, dava un'impressione di calore e di intimità. Il pavimento era coperto di mattonelle molto vecchie e consumate in modo disuguale, come se avessero visto il passaggio di innumerevoli piedi. Su un lato della stanza ardeva un fuoco che mandava odore d'incenso e di fumo fragrante, e accanto al focolare c'era una forma scura e pelosa, che attizzava i carboni servendosi di un mantice lungo, dalla forma strana. Quando Kerwin entrò nella stanza, la creatura lo fissò con occhi grandi, verdi e privi di pupilla, ma non privi di una loro intelligenza, diversa da quella umana.
Dall'altra parte del focolare c'era un tavolo massiccio, di legno lucido, riccamente scolpito; inoltre si scorgevano alcune poltrone e un divano (o era un letto?) coperto di mucchi di cuscini. Le pareti erano coperte di arazzi. Da una delle poltrone si alzò una donna di mezza età, che si avvicinò a loro. Si fermò a un passo di distanza da Kerwin, e lo fissò. Aveva gli occhi grigi, e uno sguardo freddo e intelligente.
«Il barbaro», commentò. «Be', ne ha davvero l'aspetto, con quel sangue sulla faccia. Ancora una di queste risse, Auster, e andrai alla Casa della Penitenza di Nevarsin per un'intera stagione.» Poi aggiunse, come se il particolare le fosse venuto in mente solo allora: «D'inverno».
Aveva la voce roca e dura; nei suoi capelli rossi si scorgevano molti fili grigi. Indossava almeno un paio di scialli e di gonne pesanti, e sotto di esse si indovinava una corporatura tozza e massiccia, ma troppo muscolosa per sembrare grassa. Aveva un'aria allegra e intelligente, e alcune sottili rughe agli angoli degli occhi.
«Be', che nome vi hanno dato i terrestri?» gli chiese.
Kerwin le disse il proprio nome, e la donna lo ripeté, con un leggero sforzo. «Jeff Kerwin. Suppongo che ci fosse da aspettarselo. Io sono Mesyr Aillard e sono una vostra lontana cugina. Non crediate che sia particolarmente orgogliosa di questa parentela, perché non lo sono affatto.»
Tra i lettori del pensiero, gli disse una voce mentale, le menzogne dette "per educazione" sono inutili. Non giudicate il suo comportamento in base ai canoni dei terrestri. Kerwin pensò che nonostante i suoi modi bruschi e sgarbati, la vecchia signora aveva qualcosa che gli piaceva. Si limitò a dire, cortesemente: «Forse, un giorno, riuscirò a farvi cambiare idea, Madre», servendosi del termine darkovano che significava non proprio "madre" o "madrina, madre adottiva", ma poteva riferirsi a qualsiasi parente femminile della generazione della propria madre.
«Oh!» ribatté la donna, «chiamatemi Mesyr. Non sono tanto vecchia! Non mi avvicino più agli schermi, da quando mio figlio Corus ha l'età per lavorarci; almeno quello è un tabù che rispetto. Ecco mio figlio Corus; come dobbiamo chiamarvi, Jefferson?»Kerwin notò che aveva difficoltà a pronunciare la parola. «Jeff?»
Un giovanotto alto e magro, di circa diciassette anni, si avvicinò a Kerwin e gli tese la mano, con quella che sembrava un'aria di sfida verso i compagni. Gli rivolse un esile sorriso, simile a quello che gli aveva rivolto Taniquel quando aveva fatto la sua conoscenza, e disse: «Sono Corus Ridenow. Siete stato su altri mondi dello spazio?»
«Quattro volte. Su tre altri pianeti, uno dei quali era la Terra stessa.»
«Deve essere stato interessante», commentò Corus, in tono quasi nostalgico. «Quanto a me, non mi sono mai spinto più in là di Nevarsin.»
Mesyr diede un'occhiataccia al figlio e proseguì nelle presentazioni: «Ed ecco Rannirl, il nostro tecnico delle matrici».
Rannirl aveva una decina d'anni più di Kerwin: era un uomo magro, alto e dall'aria molto competente, con una corta barba rossa e mani robuste e coperte di calli. Non fece il gesto di stringere la mano a Kerwin; si limitò a rivolgergli un inchino molto compito e disse: «Così, sono riusciti a rintracciarvi. Credevo che non fossero in grado di farlo, e non pensavo che riusciste ad attraversare il Velo. Kennard, ti devo quattro bottiglie di vino di Ravnet».
Kennard rispose, sorridendo cordialmente: «Le berremo insieme, alla prossima festa... tutti insieme. Non avevi fatto anche una scommessa con Elorie? La tua passione per l'azzardo finirà per rovinarti, prima o poi, amico mio. E dov'è Elorie? Dovrebbe essere qui a riscuotere la vincita, se non altro».
«Arriverà tra pochi minuti», disse una donna alta, che secondo Kerwin doveva avere qualche anno meno di Mesyr. «Io sono Neyrissa.» Anche la nuova venuta aveva i capelli rossi come la ruggine, era alta e snella, non particolarmente bella di viso; fissò Kerwin senza abbassare gli occhi; non sembrava ben disposta verso di lui, ma neppure maldisposta. «Vi interesserebbe lavorare come nostro controllore? Non mi piace lavorare all'esterno del cerchio, è uno spreco di tempo.»
«Non l'abbiamo ancora messo alla prova, Neyrissa», disse Kennard, ma la donna si limitò ad alzare le spalle.
«Ha i capelli rossi», disse, «ed è riuscito a passare attraverso il Velo senza subire danni. Ma suppongo che vogliate scoprire quali donas possiede. Spero che abbia quelli degli Alton o degli Ardais, perché in questo momento ne abbiamo bisogno. Invece, il Potere dei Ridenow è in eccesso, ora come ora...»'
«Io mi sento offesa», intervenne Taniquel, nell'udire l'ultima affermazione. Però, sorrideva. «E tu, Corus, intendi lasciarglielo dire senza protestare?»
Il giovanotto sorrise a sua volta e osservò: «Con i tempi che corrono, non possiamo permetterci di rifiutare nessun tipo di Potere. E, poi, non è tra noi per questo? Da quanto tempo non abbiamo un numero sufficiente di persone per lavorare ad Arilinn? Se avesse le doti di Cleindori, sarebbe splendido, ma non dimenticare che anche lui ha il sangue dei Ridenow».
«Be', occorrerà ancora qualche tempo per capire se il lavoro adatto a lui è quello di controllore o di meccanico delle matrici, o magari di tecnico», commentò Kennard. «Dovrà dirlo Elorie. Eccola che arriva.»
Tutti si voltarono verso la porta; solo dopo qualche istante, Kerwin capì che il silenzio improvvisamente caduto nella stanza era esclusivamente frutto della sua immaginazione, perché Mesyr, Rannirl e Neyrissa continuavano a parlare, e soltanto a lui era parso che la ragazza apparsa sulla soglia fosse circondata dal silenzio. In quell'istante, quando la ragazza posò su di lui gli occhi grigi, Kerwin riconobbe il viso che aveva visto nella luce del cristallo.
Era bassa di statura, di forme molto delicate, e Kerwin comprese che era molto giovane; forse addirittura più giovane di Taniquel. Aveva i capelli rosso-rame, brillanti come il sole dell'alba, raccolti in due trecce che le scendevano ai lati del viso abbronzato dal sole. Indossava una veste molto semplice, di colore rosso chiaro, chiusa sulle spalle da grossi fermagli di metallo. Sia il vestito sia i fermagli sembravano troppo pesanti per la sua giovane età, come se le sue spalle stessero per piegarsi sotto quel peso, o come una bambina appesantita dai paramenti di una principessa o di una grande sacerdotessa. Camminava ancora come una bambina, con passi lunghi, e sporgeva il labbro inferiore, come una bambina imbronciata, mentre gli occhi, grigi e distanti, con le ciglia straordinariamente lunghe, erano già nettamente da donna.
Disse: «È arrivato il mio barbaro, suppongo».
«Tuo?» chiese Taniquel, inarcando le sopracciglia e fissando la ragazza dalla veste rossa. Rise. Ma Elorie annuì e ripeté con voce chiara e dolce:
«Mio.»
«Non litigate per me», intervenne Kerwin, il quale, nonostante tutto, sembrava divertito della scena.
«Non c'è niente di cui inorgoglirsi», disse Auster, seccamente. Subito Elorie lo guardò con riprovazione, e Auster, con grande stupore di Kerwin, abbassò la testa come un cane bastonato.
Taniquel rivolse a Kerwin lo strano sorriso che lui le aveva già visto in parecchie occasioni — sembrava, pensò lui, che avessero qualche segreto da condividere — e disse: «Vi presento la nostra Guardiana, Elorie di Arilinn. E adesso che ci siamo tutti, potete sedervi e bere e mangiare qualcosa, e avrete il tempo di riprendervi. So che la notte è stata lunga e faticosa per voi».
Kerwin accettò con un cenno del capo il bicchiere che la ragazza gli mise in mano. Kennard levò a sua volta il bicchiere per brindare a Kerwin e disse: «Ben tornato a casa, ragazzo mio».
Tutti gli altri si unirono al brindisi, e si raccolsero attorno a Kerwin: Taniquel con il suo sorriso indecifrabile; Corus con una strana combinazione di curiosità e di diffidenza; Rannirl con un sorriso riservato, ma amichevole; Neyrissa ancora intenta a osservarlo e cercare di valutarlo. Solamente Elorie non disse niente e non sorrise; si limitò a guardare Kerwin mentre si portava alle labbra il bicchiere, poi abbassò gli occhi. Ma per Kerwin fu come se anche lei gli avesse detto: Benvenuto a casa.
Mesyr posò il bicchiere e guardò Kerwin, con aria decisa.
«Benissimo», disse. «E adesso, visto che non abbiamo chiuso occhio per tutta la notte perché volevamo assicurarci che vi portassero sano e salvo fino alla Torre, proporrei di andare tutti a dormire.»
Elorie si passò sugli occhi il dorso delle mani, come una bambina, e sbadigliò. Auster si avvicinò a lei e le disse con irritazione: «Hai di nuovo consumato tutte le tue energie! Per lui!»aggiunse, lanciando a Kerwin un'occhiata carica d'irritazione. Disse anche altro, ma si espresse in una lingua che Kerwin non riusciva a capire.
«Venite con me», disse Mesyr, rivolgendosi a Kerwin. «Vi porterò di sopra e vi darò una stanza. Possiamo rimandare le spiegazioni a dopo, quando avremo dormito per qualche ora.»
Uno dei non umani li precedette con il lume, e Mesyr si diresse verso un corridoio ampio e pieno d'echi, e poi prese una scala a chiocciola.
«Se c'è una cosa che non ci manca», disse, «è lo spazio. Perciò, se la stanza non vi piace, cercatene un'altra che non sia occupata e trasferitevi lì. Questa Torre è stata costruita per ospitare una trentina di persone, e una volta c'erano tre Cerchi completi, ciascuno con il suo Guardiano, mentre noi siamo solo in otto... nove con voi. E questo, naturalmente, è il motivo per cui vi abbiamo portato qui. Uno dei kyrri...»indicò il non umano, «...vi porterà tutto ciò che vi occorre, e se avete bisogno di qualcuno che vi aiuti a vestirvi, fatevi aiutare da lui. Non abbiamo servitori umani, qui, perché non riuscirebbero a passare attraverso il Velo.»
Prima che Kerwin riuscisse a rivolgerle qualche domanda, Mesyr disse: «Ci vedremo al tramonto. Vi manderò qualcuno per insegnarvi la strada», e si allontanò. Dopo un attimo di sorpresa, Kerwin cominciò a guardarsi attorno.
La stanza era grande e lussuosa; in realtà, più che di una stanza, si trattava di un vero appartamento. I mobili erano antichi, e gli arazzi alle pareti erano sbiaditi. In una delle stanze interne c'era un grande letto a baldacchino; i piedi di generazioni di abitanti della Torre avevano consumato le mattonelle del pavimento, ma le lenzuola erano fresche di bucato e sapevano vagamente di incenso. Sugli scaffali c'erano alcuni libri e vari rotoli di pergamena, e in uno di essi si scorgeva anche un paio di strumenti musicali. Kerwin si chiese chi fosse stato l'ultimo occupante della stanza, e quanto tempo prima. Il piccolo e peloso non umano aprì le tende della stanza di soggiorno per far entrare la luce e chiuse quelle della camera, poi preparò il letto. Esplorando le altre stanze dell'appartamento, Kerwin trovò un bagno estremamente lussuoso, quasi sibaritico, con una vasca in cui si sarebbe potuto addirittura nuotare; inoltre, altri impianti igienici, un po' strani, forse, ma con tutto quel che si poteva desiderare, e anche qualcosa che a Kerwin non sarebbe venuto in mente di mettere in un normale bagno domestico. Su uno scaffale si scorgevano alcuni vasetti finemente scolpiti, d'avorio e d'argento, e Kerwin, incuriosito, ne aprì uno. Era vuoto, a parte un piccolo strato di sostanza resinosa sul fondo, ormai secca. Doveva essere un cosmetico o un profumo di qualche leronis Comyn dei tempi passati, che era vissuta in quell'appartamento. Che quelle stanze fossero abitate da spettri? Nel vasetto rimaneva ancora una lievissima traccia di profumo, e Kerwin ebbe l'impressione di conoscerlo; doveva averlo sentito quando era molto piccolo, ma quando cercò di ricordarsene con maggiore esattezza, non riuscì più a rammentarsene... con decisione, scosse la testa e chiuse il vasetto. Il ricordo lo lasciò, come un sogno contenuto in un altro sogno.
Ritornò nel "soggiorno" dell'appartamento e osservò i ricami dell'arazzo, che raffiguravano una donna snella, dai capelli color rame, che si dibatteva fra le braccia di un demone. Facendo appello ai propri ricordi d'infanzia, Kerwin vi riconobbe le figure mitiche di una leggenda darkovana: Camilla rapita dal demone Zandru. C'erano altri arazzi raffiguranti leggende di Darkover. Kerwin ne riconobbe alcune della Ballata di Hastur e Cassilda: la leggendaria Cassilda seduta all'arcolaio dorato o china sulla forma immobile del Figlio della Luce, sulle sponde del Lago di Hali, Camilla che gli portava bacche e frutti della terra, Cassilda con un fiore di stelle in mano, Alar alla forgia, Alar incatenato all'inferno, con la lupa che gli dilaniava il cuore, Sharra che si levava tra le fiamme, e Camilla trafitta dalla spada di ombre. Kerwin ricordava che i Comyn vantavano la propria discendenza dal mitico Hastur, Figlio della Luce; ora si chiese che cosa avessero a che fare, gli dèi delle leggende, con l'odierna famiglia Hastur di Castello Hastur e dei Comyn. Ma era troppo stanco per rivolgersi domande o per pensare a cose di quel genere. Si tolse i vestiti e s'infilò sotto le coperte del grande letto; dopo pochi istanti era addormentato.
Quando si svegliò, il sole era già basso nel cielo, e uno dei silenziosi servitori non umani si aggirava nella stanza da bagno, per riempire di acqua leggermente profumata la grande vasca. Kerwin si stupì di una tale abbondanza finché non ricordò che quella zona era ricca di sorgenti vulcaniche. Gli tornarono in mente anche le parole di Mesyr, che nel lasciarlo gli aveva fissato l'appuntamento per l'ora del tramonto, e Kerwin si lavò, si fece la barba e mangiò il cibo che gli venne portato dal non umano. Però, quando la creatura pelosa gli indicò il letto, su cui erano posati alcuni abiti tipicamente darkovani, Kerwin scosse la testa e indossò l'uniforme scura del Servizio Imperiale. In un certo senso, la cosa lo divertì. Fra i terrestri aveva sempre sentito la necessità di sottolineare la propria discendenza darkovana, ma adesso sentiva il bisogno di non negare la sua eredità terrestre. Non provava alcuna vergogna di essere il figlio di un terrestre, e se i suoi compagni volevano chiamarlo "barbaro", che facessero pure!
Senza bussare, e senza una parola di avvertimento, la ragazza Elorie entrò nella sua stanza. Kerwin trasalì, sorpreso da quella visita inattesa. Se fosse arrivata due minuti prima, l'avrebbe sorpreso senza niente indosso! Anche se era vestito — a parte gli stivali — la cosa lo mise in un profondo imbarazzo!
«Barbaro», disse la ragazza, con una leggera risata. «Naturalmente, sapevo che eravate vestito! Sono una lettrice del pensiero, non lo ricordate?»
Arrossendo fino alla radice dei capelli, Kerwin finse di infilarsi uno stivale. Naturalmente, pensò, l'etichetta valida per un gruppo di telepatici era diversa da quella a cui era abituato.
«Kennard temeva che vi perdeste», spiegò la ragazza, «nel cercare la strada per la sala di riunione; allora io gli ho detto che sarei salita a mostrarvela.»
Elorie non indossava più la veste con cui l'aveva vista all'arrivo; adesso aveva una lunga tunica di stoffa leggera, ricamata con un motivo di bacche e di fiori di stella. Era ferma sotto uno degli arazzi che ritraevano le figure della leggenda; Kerwin notò immediatamente la somiglianza, e rimase un po' perplesso. Passò alternativamente lo sguardo da Elorie all'arazzo e chiese: «Avete posato per quell'arazzo?»
Lei si girò a guardarlo, con indifferenza. «No; la modella era la mia bis-bisnonna», rispose. «Tra le donne dei Comyn, qualche generazione fa, era sorta la moda di farsi ritrarre come personaggi di scene mitologiche. Però, ammetto di avere copiato il vestito da quell'arazzo. Venite.»
Kerwin rifletté che non si comportava in modo molto amichevole con lui, e nemmeno molto educato, ma che pareva dare per scontata la sua presenza, esattamente come avevano fatto tutti gli altri.
Alla fine del corridoio, prima di scendere le scale, Elorie si recò a una finestra da cui, grazie a una profonda strombatura nel corpo della parete, si riuscivano a vedere i dintorni della torre, illuminati dal sole al tramonto.
«Osservate», disse Elorie. «Di qui potete vedere la cima dei monti di Thendara... se sapete esattamente dove guardare. Laggiù c'è un'altra Torre dei Comyn. Anche se gran parte delle Torri sono vuote, oggigiorno.»
Kerwin cercò di aguzzare lo sguardo, ma vide solo una grande distesa di pianura e, in lontananza, le prime alture ai piedi delle montagne, velate da una foschia azzurrina. «Sono ancora confuso», disse. «Non so neppure bene che cosa siano i Comyn, o che cosa sono le Torri, o che cosa sia una Guardiana, a parte il fatto», aggiunse sorridendo, «che deve essere una donna molta bella, a quanto vedo.»
Elorie lo guardò senza alcuna espressione, e davanti a uno sguardo così diretto, così fermo, Kerwin dovette abbassare gli occhi; con quella sola occhiata, Elorie gli aveva fatto capire che il complimento era volgare e fuori luogo.
Elorie disse: «È più facile spiegarvi che cosa facciamo anziché che cosa siamo. Noi siamo... ci sono tante leggende, vecchie superstizioni, e in qualche modo ci tocca rispettarle tutte...» Per un attimo, il suo sguardo si perse nella distanza, poi disse: «Un Guardiano, fondamentalmente, lavora in posizione centrale, centripeta, se vogliamo, in un "Cerchio", ossia un gruppo di tecnici delle matrici. Il Guardiano...» Aggrottò la fronte, come se cercasse parole comprensibili a Kerwin, «...il Guardiano, tecnicamente, non è altro che un operatore di matrici, particolarmente addestrato, che riesce a riunire in una sola unità il suo gruppo di lettori del pensiero, a fare da coordinatore centrale per effettuare i collegamenti mentali. Oggi, diversamente da quanto accadeva fino al secolo scorso, il Guardiano è sempre una donna. Trascorriamo tutta la giovinezza ad addestrarci, e a volte...» Si girò verso la finestra e fissò le montagne nascoste dalla foschia, «perdiamo il potere dopo pochi anni. O vi rinunciamo volontariamente.»
«Perdete il potere? Vi rinunciate volontariamente? Non capisco», disse Kerwin, ma Elorie si limitò a stringersi leggermente nelle spalle e non rispose. Doveva passare molto tempo, prima che Kerwin capisse fino a che punto Elorie sopravvalutasse le sue capacità di leggere nei pensieri. Quella ragazza non aveva mai conosciuto una persona, uomo o donna, che non fosse in grado di leggere ogni suo pensiero, a così breve distanza. Kerwin non sapeva ancora nulla dell'incredibile isolamento dal mondo in cui viveva una giovane Guardiana.
Dopo qualche istante, la ragazza proseguì: «Oggi il Guardiano è sempre una donna, mentre nelle Epoche del Caos era invariabilmente un uomo. Dipende dal tipo di Cerchio che si usa. Gli altri... controllori, meccanici, tecnici... possono essere uomini o donne. Ma nei secoli passati era più facile trovare uomini per quel lavoro. Comunque, anche allora, le persone adatte costituivano solo una piccola percentuale della popolazione». Guardò Kerwin. «Spero che voi mi accettiate come Guardiano e che riusciate a lavorare con me.»
«Sembra un lavoro interessante», disse Kerwin, guardando con apprezzamento la bella ragazza davanti a lui. Elorie si girò di scatto e lo fissò con irritazione, a bocca aperta per lo stupore e l'incredulità. Poi, con gli occhi che mandavano fiamme e le guance rosse come il fuoco, disse: «Basta! Basta! Non molto tempo fa, barbaro, avrei potuto farvi uccidere perché vi siete permesso di guardarmi così!»
Kerwin, stupito e confuso, indietreggiò di un passo. Disse, a fatica: «Calmatevi, signorina... signorina Elorie! Non volevo offendervi. Mi spiace...» Scosse la testa, senza capire. «...Ma se vi ho offesa, non so neppure come sia successo, o perché!»
Elorie si afferrò alla ringhiera della scala; la strinse talmente forte che le nocche le divennero bianche. Sembravano così fragili, quelle mani, così sottili quelle dita affusolate. Dopo un momento di silenzio, che si prolungò in modo imbarazzante, la ragazza si staccò dalla ringhiera e scosse la testa, con fastidio.
Disse: «Mi ero dimenticata. Vi ho anche sentito insultare Mesyr, senza minimamente accorgervi di averlo fatto. Se Kennard deve farvi da padre adottivo qui tra noi, è bene che vi insegni un minimo di buone maniere! Comunque, lasciamo perdere. Avete detto di non sapere neppure che cosa sono i Comyn...»
«Un gruppo al governo, penso...»
Ma la ragazza scosse la testa. «Solo negli ultimi tempi, e senza possedere un grande potere; in origine, i Comyn erano le sette famiglie telepatiche di Darkover, dei Sette Regni, e ciascuna di esse possedeva uno dei grandi Doni del laran o Poteri.»
Kerwin esclamò: «Pensavo che l'intero pianeta brulicasse di telepatici!»
Lei gli rispose con un'alzata di spalle. «Ogni essere vivente possiede una piccola quantità di laran. Io mi riferivo alle particolari doti psicocinetiche e mentali dei Comyn, selezionate nelle nostre famiglie nei secoli passati, con un programma di selezione genetica che finì per portare alle Epoche del Caos. Anticamente si credeva che quelle doti fossero ereditarie, e che i Comyn discendessero dai sette figli — tutti maschi, secondo alcuni, ma io trovo difficile crederlo — di Hastur e Cassilda; forse perché anticamente i Comyn erano noti come Figli di Hastur. In particolare, i Doni del laran si articolano attorno alla capacità di usare le pietre matrici. Voi sapete che cos'è una matrice, mi pare.»
«Vagamente», ammise Kerwin.
Elorie inarcò di nuovo le sopracciglia. «Mi avevano detto che avevate la matrice appartenente a Cleindori, il cui nome è qui scritto come Dorilys di Arilinn.»
«Certo», rispose Jeff, «ma non ho la minima idea di quello che sia,essenzialmente, e ancor meno della sua possibile utilizzazione.» Kerwin si era detto già da tempo che il tipo di cose fatte da Ragan con la sua piccola matrice non era molto rilevante; invece, le persone della Torre sembravano fare cose molto più serie.
La ragazza scosse la testa, quasi meravigliata. «Eppure, vi abbiamo trovato — e vi abbiamo guidato — attraverso di essa!» disse. «Questo ci ha provato che avevate ereditato almeno in parte il...» S'interruppe e aggiunse con ira: «Non cerco di sfuggire alle domande! Cerco di esprimermi con parole a voi comprensibili, nient'altro! Abbiamo rintracciato la matrice di Cleindori sui banchi di controllo e sui relè, e questo ci ha rivelato che avevate ereditato le caratteristiche della nostra casta. Una matrice è sostanzialmente un cristallo che riceve, amplifica e trasmette il pensiero. Potrei parlare di reticoli spaziali, reti neuroelettroniche e canali nervosi, energoni cinetici, ma preferisco lasciare a Rannirl questo genere di spiegazioni: è il nostro tecnico. Le matrici possono essere semplici come questa...» indicò il minuscolo cristallo che le teneva sospesa la veste, sfidando la forza di gravità, in corrispondenza del collo, «...oppure possono presentarsi sotto forma di enormi schermi, costruiti artificialmente — noi li chiamiamo "reticoli", in termine tecnico — con una complessa struttura interna, appositamente progettata, che risponde al pensiero amplificato proveniente da un Guardiano. Una matrice, o meglio il potere del pensiero, il laran,controllato da un abile tecnico delle matrici o da un cerchio sotto la direzione di un Guardiano, può liberare energia pura dal campo magnetico di un pianeta e può poi incanalarla nella forma voluta, come energia o come materia. Calore, luce, energia cinetica ed energia potenziale: tutte cose che un tempo venivano eseguite con le matrici. Voi sapevate che i ritmi di pensiero, le onde mentali, hanno una natura elettrica?»
Kerwin annuì. «Ho anche assistito alla loro rilevazione», disse. «Con uno strumento chiamato elettro-encefalografo...» Lo disse in linguaggio terrestre, perché non conosceva le parole darkovane equivalenti, e spiegò come si misuravano le energie elettriche del cervello, ma la ragazza scosse la testa, con insofferenza.
«Uno strumento troppo semplice ed elementare», disse. «Be', in generale, le onde del pensiero, anche quelle di un telepatico, non possono avere molto effetto sul mondo materiale. Nella maggior parte, non riuscirebbero a muovere neppure un capello. Ci sono però alcune eccezioni, forze particolari che... be', lo saprete a tempo debito. Ma in generale, come ho detto, le onde mentali in sé non muovono neppure un capello, tenetelo presente. E i cristalli matrice hanno appunto l'effetto di trasformare il pensiero in una forza avente la forma voluta. Tutto qui.»
«E i Guardiani?» chiese Kerwin.
«Alcune matrici sono troppo complesse, e non basta una sola persona per usarle. Occorre l'energia di parecchie menti, legate insieme e aumentate da un cristallo in modo da formare un anello di energie. Il Guardiano dirige e coordina queste forze. Non posso rivelare altro», aggiunse poi, seccamente, e si avviò lungo le scale. «Dobbiamo scendere da questa parte.»
Girò la schiena a Kerwin e si avviò lungo la scala, in uno svolazzo di tela leggera, e Kerwin la guardò allontanarsi, sorpreso. L'aveva di nuovo offesa? O era un capriccio infantile? Quella ragazza aveva certamente un aspetto abbastanza infantile!
Anche Kerwin scese dietro di lei e si trovò di nuovo nella grande sala rallegrata dal focolare, dove quella mattina gli avevano dato il benvenuto... benvenuto a casa? La Torre era la sua casa? La sala era completamente vuota, e Kerwin si accomodò in una delle poltrone e si nascose la testa tra le mani. Se non si fossero sbrigati a dargli qualche spiegazione, e presto, sarebbe impazzito per la frustrazione!
Kennard lo trovò laggiù, confuso e frustrato. Kerwin lo guardò e disse, scuotendo la testa: «È troppo. Non riesco a capire tutto. È troppo, tutto insieme. Non capisco, non capisco niente!»
Kennard lo guardò con una curiosa mescolanza di compassione e di divertimento. «Capisco che si possa provare qualcosa di simile», disse. «Anch'io sono vissuto alcuni anni sulla Terra; conosco bene i fenomeni dello shock culturale. Permettetemi soltanto di mettermi a sedere.» Si calò, con molta attenzione, su una poltrona e si appoggiò allo schienale, sollevò le mani e se le portò dietro la testa. «Forse posso spiegarvi alcune cose. Vi devo almeno questo.»
Kerwin aveva sempre saputo che i darkovani — in particolare quelli della nobiltà, perché per i cittadini comuni forse la cosa era diversa — non volevano avere a che fare con l'Impero Terrestre; la notizia che Kennard fosse effettivamente vissuto sulla Terra lo sorprese, ma non più di tutto quel che gli era successo nei giorni precedenti, non più della propria presenza nella Torre. Ormai non si stupiva più di niente. Disse perciò: «Cominciate con lo spiegarmi chi sono, e per quale motivo mi avete portato qui».
Ma Kennard parve ignorare la domanda, e si limitò a guardare in aria, al di sopra della testa di Kerwin. Dopo qualche tempo, disse: «Quella sera all'hotel dello spazioporto, sapete che cosa mi è parso di vedere?»
«Spiacente, ma non sono dello spirito adatto per giocare agli indovinelli», rispose Kerwin. Avrebbe voluto fare domande dirette e ricevere risposte dirette; non aveva alcuna voglia di rispondere ad altre domande.
«Ricordate», proseguì Kennard, «non avevo la minima idea della vostra identità. Assomigliavate a uno di noi, ma io sapevo che non lo eravate. Io vidi un terrestre, ma ricordate che sono un Alton, ho una di quelle strane sensibilità fuori fase rispetto al tempo. Così, guardai il terrestre e vidi un bambino confuso, un bambino che non aveva mai saputo chi fosse in realtà. Avrei voluto che vi fermaste con noi, quella sera.»
«Anch'io, in seguito, ho rimpianto di non averlo fatto», rispose Kerwin, parlando lentamente. Un bambino che non aveva mai saputo chi fosse in realtà. Kennard l'aveva espresso con grande precisione. «Ero cresciuto, è vero. Ma avevo lasciato in qualche luogo una parte di me stesso.»
«Forse la troverete qui», concluse Kennard, alzandosi lentamente in piedi; anche Kerwin si alzò; tese la mano per aiutare l'uomo più anziano ad alzarsi, ma Kennard scosse la testa e si tirò indietro; dopo un istante, però, sorrise con un leggero imbarazzo e disse: «Vi chiederete perché...»
«No», rispose Kerwin, che solo in quel momento si era reso conto di un particolare: quando si erano presentati, i suoi compagni avevano fatto abilmente in modo di non toccarlo. «Anche a me dà fastidio avere la gente addosso; non mi è mai piaciuto che i colleghi si avvicinassero a me, e in mezzo alla folla mi sento malissimo. Mi è sempre successo.»
Kennard annuì. «È il laran»,spiegò. «Ne avete a sufficienza per trovare sgradevole il contatto fisico con le altre persone.»
Kerwin ridacchiò. «Non arriverei a dire di averlo trovato sempre sgradevole...»
Kennard alzò le spalle e sorrise. «Sgradevole tolti i casi in cui voi stesso avete cercato l'intimità. È così?»
Kerwin annuì, riflettendo sui rari incontri personali della sua vita. La sua nonna terrestre si era sempre offesa, per i suoi rifiuti di abbracciarla. Eppure, lui aveva sempre provato molta simpatia per la vecchia signora, e a suo modo le aveva voluto bene. I suoi compagni di lavoro... be', ora capiva di averli sempre trattati come Auster aveva trattato lui sull'aeroplano: respingendo violentemente ogni contatto personale accidentale, ritraendosi da loro. La cosa non lo aveva reso particolarmente simpatico ai colleghi, detto per inciso.
«Voi avete... Quanti anni? Ventisei, ventisette? Naturalmente, io so quanti anni darkovani avete — sono stato uno dei primi a sapere da Cleindori della vostra nascita — ma non so mai fare la conversione tra anni darkovani e anni terrestri. È passato troppo tempo da quando vivevo sulla Terra. Un lungo periodo, se si vive al di fuori del proprio elemento!»
«Proprio elemento un corno», ribatté Kerwin. «Vi spiace farmi capire qual è il mio posto in questo pasticcio?»
«Cercherò di farlo», promise Kennard. Si diresse a un tavolo posto in un angolo della stanza e si servì un bicchiere di liquore, versandoselo da una delle bottiglie; poi rivolse a Kerwin un'occhiata interrogativa.
«Berremo tutti quando arriveranno anche gli altri, ma in questo momento ho sete. Voi?»
«Io aspetto gli altri», rispose Kerwin. Non era mai stato un bevitore. La gamba deve fargli davvero male, se compie una simile infrazione alle regole. Questo pensiero gli guizzò nella mente, e Kerwin si chiese da dove venisse. Intanto, l'uomo più anziano era lentamente ritornato alla sua poltrona.
Kennard bevve, posò il bicchiere, intrecciò le dita di una mano con quelle dell'altra, poi disse pensosamente: «Elorie ve ne ha già parlato; ci sono sette famiglie di lettori del pensiero, su Darkover: una famiglia dominante per ciascuno dei Regni. Gli Hastur, i Ridenow, gli Ardais, gli Elhalyn, gli Alton — la mia famiglia — e gli Aillard: la vostra».
Kerwin aveva tenuto il conto fino a quel momento. Disse: «Fanno sei».
«Preferiamo non parlare degli Aldaran. Anche se molti di noi hanno sangue Aldaran, e le doti degli Aldaran. Ci sono stati matrimoni tra noi... ma anch'io preferisco non parlare di questa storia, perché è lunga e non c'è da andarne particolarmente orgogliosi. Comunque, gli Aldaran sono stati banditi dai Regni molto tempo fa, e preferirei lasciar perdere quelle vecchie faccende, perché non le conosco bene e perché non abbiamo molto tempo. Però, anche se avessi il tempo e conoscessi la storia, vi assicuro che preferirei non raccontarla. Allora, con solo sei famiglie di telepatici... avete idea di quanti matrimoni tra parenti stretti si vengono ad avere?»
«Intendete dire che normalmente vi sposate unicamente all'interno della vostra casta di telepatici?»
«Non sempre... e non volontariamente», disse Kennard, «ma, essendo telepatici, e vivendo in genere isolati nelle Torri, dove incontriamo soltanto altri della nostra stessa razza... la cosa è come una droga.» Gli tremava leggermente la voce. «Finisce per rendervi completamente incapace di contatto con altre persone. Si finisce per... perdersi nella nostra attività, e quando si esce a prendere una boccata d'aria, per così dire, ci si accorge che non si sopporta più l'aria normale. Scoprite che non sopportate più la presenza delle altre persone: persone che non sono abituate a leggervi nel pensiero, persone che vengono a urtare contro la vostra mente. Non potete avvicinarvi a loro; non vi sembrano del tutto reali. Oh, dopo un poco, ci fate l'abitudine, altrimenti non riuscireste a vivere all'esterno delle Torri... ma quella di rimanere per sempre nelle Torri è una grande tentazione. I non telepatici finiscono per sembrarvi altrettanti barbari, o strani animali, sbagliati, estranei...» Continuava a fissare lontano, al di sopra della testa di Kerwin. «Vi impedisce ogni genere di contatto con le persone comuni. Con le donne. Anche al vostro livello, immagino, dovete avere avuto dei guai con donne che non potevano condividere i vostri sentimenti e i vostri pensieri. Dopo dieci anni trascorsi ad Arilinn, ogni altro luogo è come... andare a letto con un animale o con un bruto...»
Il silenzio si prolungò, mentre Kerwin rifletteva sulle parole dell'uomo più anziano e ripensava alla curiosa alienazione, al senso di differenza,che era sopraggiunto tra lui e tutte le donne che aveva conosciuto. Come se fosse mancato qualcosa di più, qualcosa di più profondo del semplice contatto intimo...
Improvvisamente, con un leggero brivido, Kennard si riprese, e disse seccamente:
«Dunque, siamo affetti da troppa consanguineità, che è mentale ancor prima che fisica, a causa di questa incapacità di sopportare gli estranei. E la consanguineità fisica è già abbastanza brutta; sono apparsi alcuni strani geni recessivi. Una parte degli antichi Doni sembra del tutto scomparsa; in tutta la mia vita non ho visto più di uno o due catalizzatori telepatici. Era il vecchio dono degli Ardais, ma il Nobile Kyril non lo possedeva, o se lo possedeva non imparò mai a usarlo, e adesso è pazzo come un daino nella stagione del Vento Fantasma. Negli Aillard, ormai, il Dono è collegato al sesso e compare solo nelle donne, gli uomini non lo posseggono. E così via... Se conoscete un po' la genetica, saprete di che cosa parlo. Un buon programma genetico riuscirebbe ancora a salvarci, se potessimo adottarlo, ma gran parte di noi non ci riuscirebbe. Così...» alzò le spalle, «...a ogni generazione che passa, nasce un numero sempre minore di noi con gli antichi Doni del laran. Mesyr ve lo ha detto; una volta, qui ad Arilinn c'erano tre Cerchi completi, ciascuno con il suo Guardiano. Un tempo, le torri esistenti erano più di dodici, e Arilinn non era certo la più grande. Oggi... be', ci sono unicamente tre altre Torri che lavorano con un Cerchio diretto da un meccanico; noi siamo l'unica Torre con un Guardiano pienamente qualificato, la qual cosa significa che Elorie è virtualmente l'unico Guardiano esistente su Darkover. E tra i Comyn e la piccola nobiltà legata a noi da vincoli di sangue siamo appena sufficienti a mantenere in vita l'istituzione delle Torri. Perciò, tra i Comyn sono sorte due linee di pensiero.» Adesso aveva preso a parlare animatamente, senza più traccia del precedente distacco. «Una fazione pensava che dovessimo attenerci alle antiche usanze, finché potevamo, e opporci a ogni cambiamento, per infine scomparire, come sarebbe inevitabilmente successo nell'arco di poche generazioni. Scomparse le Torri, di loro non sarebbe più interessato mente a nessuno, ma almeno, fino all'ultimo, sarebbero rimaste uguali a se stesse. Altri invece pensavano che, essendo inevitabile il cambiamento, o almeno essendo l'unica alternativa alla morte, avremmo dovuto cambiare tutto quel che poteva essere cambiato in modo sopportabile, prima di essere costretti a fare altri cambiamenti, insopportabili. Queste persone pensavano che la scienza delle matrici potesse essere insegnata a tutti coloro che avevano anche solo qualche traccia di laran,e che anch'essi, se fossero stati addestrati come un normale telepate Comyn, potessero lavorare allo stesso modo. Alcuni di questa fazione erano al potere tra i Comyn della scorsa generazione, e nel corso di quegli anni apparve una nuova professione: quella di tecnico delle matrici. Durante quel periodo scoprimmo che gran parte della gente possiede poteri telepatici — almeno, nella misura occorrente per lavorare con una matrice — e che poteva essere addestrata nelle scienze delle matrici.»
«Ho incontrato anch'io un paio di tecnici di quel genere», confermò Kerwin.
«Dovete ricordare», continuò Kennard, «che tutta la situazione veniva complicata da molti atteggiamenti intensamente emotivi. Il laran era quasi una religione, e i Comyn erano quasi un sacerdozio, in tempi passati. Sulle Guardiane, in particolare, si riversava un fanatismo che era quasi un culto religioso. E così arriviamo al punto il cui la storia vi riguarda personalmente.»
Trasse un sospiro e cambiò posizione sulla poltrona, fissando Kerwin. Dopo qualche istante, disse: «Cleindori Aillard era mia sorella adottiva. Era una figlia nedestro,ossia illegittima, del suo clan, perché non era nata da un regolare matrimonio di catenas,ma era figlia di una Aillard e di un Ridenow che era già sposato con la sua madre adottiva. Portava il nome Aillard perché era figlia di una Aillard di rango elevato, e tra noi il figlio — legittimo o illegittimo — prende il titolo del genitore di grado più alto. Io e Cleindori siamo cresciuti insieme fin da quando era piccola, e Cleindori era stata fidanzata — tra noi, questo tipo di fidanzamento o promessa matrimoniale avviene quando gli interessati sono molto giovani, e riguarda più le famiglie che i promessi sposi — a mio fratello maggiore Lewis. Poi venne scelta per essere addestrata come Guardiana di Arilinn».
Kennard s'interruppe e rifletté per qualche istante, con aria cupa. Infine riprese: «Non so con precisione che cosa sia successo, e ho giurato di non rivelare alcuni particolari — mi hanno ingiunto di farlo, al mio ritorno ad Arilinn — perciò devo tacere molti aspetti della vicenda. Ricordate comunque che per gran parte di quel periodo io sono rimasto lontano, sulla Terra. Anche quella è una lunga storia. Mio padre aveva preso un figlio adottivo terrestre, e io sono andato sulla Terra, un po' come accade sulla Terra in certi scambi di studenti: io sulla Terra e Lerrys qui. Così, per sei o sette anni non ho più visto Cleindori, e quando sono ritornato su Darkover lei era Dorilys di Arilinn. La Guardiana della Torre.
«Sotto un certo aspetto», continuò, «Cleindori era la più importante persona dei Comyn, la donna più potente di Darkover. La Signora di Arilinn. Era una Sapiente di grandissima abilità, e come tutte le Guardiane aveva fatto voto di verginità, e viveva in completo isolamento... fu l'ultima a farlo. Neppure Elorie ha avuto l'addestramento ricevuto da Cleindori, il vecchio addestramento di Arilinn. Se non altro, Cleindori è riuscita a cambiare quello stato di cose.»
Per qualche istante, si perse di nuovo nei suoi pensieri cupi. Poi, rizzando la schiena, continuò con voce priva di emozione:
«Cleindori era una lottatrice, una ribelle. Era una profonda innovatrice, e poiché era una delle ultime Aillard della linea diretta che fossero sopravvissute, era l'erede presunta di quel Regno. Perciò, anche senza essere la Signora di Arilinn disponeva di un grande potere personale e di un posto importante nel Consiglio. Così, cercò di cambiare le leggi di Arilinn. Combatté lungamente contro il Consiglio di quegli anni, che riteneva che le Torri dei Comyn dovessero conservare i loro segreti e la loro condizione antica, protetta e semireligiosa. Cercò di attirare alle Torri anche gli estranei... e in parte ci riuscì. La Torre di Neskaya, per esempio, cominciò a prendere tutti coloro che avessero sufficienti doti telepatiche, indipendentemente dal fatto che fossero Comyn, comuni cittadini o figli di mendicanti messi al mondo in un fosso ai margini della strada. Del resto, in quella Torre non avevano un vero Guardiano, da parecchie generazioni. A quel punto, però, Cleindori cercò di abbattere anche i tabù legati alla sua particolare condizione di Guardiano. E questo fu troppo, fu una specie di eresia che scatenò la ribellione contro di lei... Cleindori continuò a infrangere tabù, affermando di poterlo fare impunemente perché, come Guardiano, era responsabile soltanto di fronte alla propria coscienza. E alla fine fuggì da Arilinn.»
Kerwin aveva cominciato a sospettare come sarebbe andata a finire, ma, anche così, la cosa fu una sorta di shock. Disse, a bassa voce: «Con un terrestre. Mio padre».
«Non so se abbia lasciato la Torre con lui, o se si sia unita a lui più tardi», rispose Kennard, evasivamente. «Ma è per questo che Auster vi odia, e che molte persone ritengono che la vostra stessa esistenza sia un sacrilegio. Non era raro che una Guardiana rinunciasse ai suoi poteri e si sposasse. Molte lo hanno fatto. Ma che una Guardiana lasciasse la Torre, rinunciasse alla verginità e insistesse per rimanere una Guardiana... questo venne giudicato insopportabile.» Lo disse con grande amarezza. «Dopotutto, i Guardiani non sono persone così speciali; fin dall'epoca di mio padre si era scoperto, o riscoperto, che qualsiasi tecnico di buona competenza può compiere il lavoro del Guardiano. Non solo donne, ma anche uomini. Io stesso, all'occorrenza, sarei in grado di farlo, anche se non sono particolarmente abile in quel genere di lavoro. Ma la Guardiana di Arilinn... be', è un simbolo. Una volta, Cleindori mi ha detto che quel che occorreva realmente ai Comyn era una bambola di cera infilata su un bastone, che portasse la veste rosa e che dicesse le parole giuste al momento giusto, e che ad Arilinn non c'era alcun bisogno di una Guardiana; e poiché la bambola poteva rimanere vergine eternamente, senza alcun problema e senza compiere sacrifici, tutti i guai di Arilinn sarebbero stati risolti in quel modo.
«Voi non potete capire», continuò Kennard, «quanto fosse sconvolgente, per i membri più anziani del Consiglio, un simile modo di parlare. Si rivoltarono contro Cleindori, parlarono di sacrilegio.»
Abbassò lo sguardo e fissò in terra, irritato. «Inoltre, Auster ha un altro motivo personale per odiarvi. Anche lui è nato fra i terrestri,anche se non se ne ricorda; per qualche tempo è stato ospite dello stesso vostro orfanotrofio, anche se lo abbiamo tolto di li prima che imparasse la lingua terrestre. Non gli ho più sentito dire una sola parola in lingua terrestre, o in cahuenga,da quando aveva tredici anni, ma questo non c'entra. Anche la sua è una strana storia.» Kennard alzò la testa e fissò Kerwin, dicendo: «È stata una fortuna per voi che i terrestri vi abbiano mandato sulla Terra, dai Kerwin. C'era un mucchio di fanatici convinti di poter fare un'azione meritevole... vendicare il disonore di una vai leronis uccidendo il figlio nato da lei e dal suo amante».
Kerwin si accorse di essere rabbrividito, sebbene nella stanza facesse caldo. «Se le cose stanno in questo modo», chiese, «che diavolo ci faccio, io, qui ad Arilinn?»
«I tempi sono cambiati», rispose Kennard. «Come vi dicevo, noi delle Torri ci stiamo estinguendo. Non siamo in numero sufficiente. Qui ad Arilinn abbiamo un Guardiano, ma in tutti i Regni non ci sono più di due o tre Guardiani, oltre a un paio di bambine che non hanno ancora l'età adatta, ma che potrebbero diventare Guardiane. I fanatici sono morti, oppure sono stati resi inoffensivi dalla vecchiaia, e anche se in giro ne resta ancora qualcuno, quelli che sono rimasti hanno imparato ad ascoltare la voce della ragione. Della nuda necessità, dovrei dire; non possiamo permetterci di trascurare nessuno che abbia i Doni degli Aillard o degli Ardais, o... altri. Voi avete sangue Ridenow, e sangue Hastur risalente a non molte generazioni addietro, e Alton. Per vari motivi...»
S'interruppe bruscamente, por disse: «Altre persone, adesso, guidano il Consiglio. Quando siete ritornato a Thendara... be', non mi è occorso molto tempo per capire chi foste. Elorie vi ha visto negli schermi di controllo — o, meglio, ha visto la matrice di Cleindori — e ha confermato la mia convinzione. Quella sera, all'hotel dell'astroporto, si era riunita una decina dei nostri, proveniente dalle poche Torri ancora in funzione — e ci eravamo riuniti all'esterno del Castello dei Comyn, per poter parlare liberamente — e il motivo che ci aveva spinti a riunirci laggiù era il desiderio di accordarci su un criterio comune di ammissione alle Torri, per poter riprendere il lavoro anche in quelle che adesso sono vuote. Quando siete entrato voi... be', ricorderete anche voi quello che è successo; abbiamo pensato che foste uno di noi, e non solo per il fatto che avevate i capelli rossi. Potevamo sentire quello che eravate. Così, vi abbiamo chiamato, qualche settimana più tardi. E voi siete venuto. E adesso siete con noi».
«Sì, un barbaro, un estraneo...» disse Kerwin.
«Non proprio, perché altrimenti non sareste mai riuscito a oltrepassare il Velo. Come avete capito, non ci piace avere tra noi dei non telepatici; per questo non abbiamo servitori umani e per questo Mesyr rimane qui a occuparsi dell'andamento della Torre, anche se è troppo vecchia per lavorare con gli schermi. Voi siete passato attraverso il Velo, e questo significa che avete sangue Comyn. Inoltre, io mi sento a mio agio con voi, e questo è un buon segno.»
Kerwin inarcò le sopracciglia. Forse Kennard poteva sentirsi a proprio agio con lui, ma la cosa non valeva per Kerwin, almeno per ora. L'uomo più anziano gli piaceva, ma da questo a trovarsi a proprio agio con lui c'era molta strada.
«Rimpiange di non poter ancora provare lo stesso sentimento per te», disse Taniquel, che arrivava in quel momento. «Arriverete a sentirvi a vostro agio, Jeff. Semplicemente, siete vissuto per troppo tempo in mezzo ai barbari.»
«Non prenderlo in giro, figliola», disse Kennard, con un sorriso. «Se è solo per questo, si trova a disagio anche con te, e ciò non significa necessariamente che sia un barbaro. Portaci da bere, se vuoi farci un piacere, e non metterlo in imbarazzo. Abbiamo già molte cose a cui pensare.»
«Niente alcolici», disse Rannirl, soffermandosi sulla soglia della stanza prima di entrare. «Elorie arriverà tra pochi istanti. Aspettiamo.»
«Significa che intende sottoporlo alla prova», spiegò Taniquel. Si avvicinò a loro e si sedette sui cuscini, leggera come un gattino, e appoggiò la terapia contro il ginocchio di Kennard. Poi allargò le braccia — e con uno sfiorò leggermente Kerwin — sbadigliò e, distrattamente, gli posò la mano sul piede e cominciò a tamburellare con le dita. Poi appoggiò la mano contro la sua caviglia, si girò verso di lui e gli sorrise maliziosamente. Kerwin era piuttosto imbarazzato da quel contatto. Non gli piaceva che lo toccassero, ed era certo che lo sapesse la stessa Taniquel.
Intanto, anche Neyrissa e Corus entrarono nella stanza e presero posto sui cuscini; si spostarono leggermente, per fare posto alla gamba dolorante di Kennard, e Taniquel si mosse fino a trovarsi fra Kennard e Kerwin, con un braccio sulle gambe dell'uno e uno su quelle dell'altro. Kennard le accarezzò affettuosamente la testa, ma Kerwin, turbato, si tirò leggermente indietro. Maledizione, pensò, che quella ragazza fosse solo una sciocca civetta? O era ingenua, infantile, abituata a stare in mezzo a uomini che la consideravano come una sorella? Senza dubbio trattava Kennard come un vecchio zio — e lui, a sua volta, la trattava come una nipotina prediletta — e non c'era niente di provocante nel modo in cui lo toccava, ma in qualche modo la cosa era diversa per Kerwin, che era perfettamente cosciente della differenza e che si chiedeva se anche lei lo fosse. Oppure, era solamente frutto della sua fantasia? Anche adesso, come quando Elorie era entrata nella sua stanza prima che avesse finito di vestirsi, Kerwin cominciò a preoccuparsi. Maledizione. L'etichetta da seguire in un gruppo di telepatici era ancora un mistero per lui.
Elorie, Mesyr e Auster entrarono insieme nella stanza. Immediatamente, Auster si guardò attorno con irritazione, cercando Kerwin, e Taniquel si raddrizzò e si staccò leggermente da Kerwin. Corus si avvicinò a un armadietto, con l'aria di chi fa una cosa che ha già fatto molte volte. «Che cosa bevete? Il solito, Kennard, Mesyr? E tu Neyrissa? Elorie, so che non bevi niente di più forte dello sballan...»
«Ma non questa sera», disse Kennard. «Tutti berremo kirian.»
Corus si voltò verso di lui, stupito, per avere la conferma, ed Elorie gli rivolse un cenno affermativo. Taniquel si alzò e si avvicinò a Corus per aiutarlo; entrambi poi versarono in bassi bicchieri di vetro spesso il liquore di una bottiglia dalla forma bizzarra. La ragazza ne portò un bicchiere a Kerwin senza chiedergli se ne volesse.
Il liquore contenuto nel bicchiere era trasparente e aromatico. Kerwin lo osservò, ed ebbe la netta impressione che tutti guardassero lui. Maledizione, era stufo di esibirsi a beneficio degli altri! Posò il bicchiere sul pavimento, senza bere.
Kennard rise. Auster disse qualcosa che Kerwin non riuscì a comprendere e Rannirl aggrottò le sopracciglia, mormorandogli alcune parole di rimprovero. Elorie li guardò tutt'e due, con un leggero sorriso, e si portò il bicchiere alle labbra, limitandosi a un minimo assaggio del liquore. Taniquel rise, e Kennard sbottò:
«Per tutti gli inferni di Zandru! È una questione troppo seria per scherzare! So che ti piace ridere, Taniquel, ma cerca di fare uno sforzo...» Prese il bicchiere che Corus gli porgeva, e lo fissò con un'alzata di sopracciglia. «A quanto vedo, devo di nuovo svolgere il ruolo del maestro di scuola!» Sospirò, sollevò il bicchiere e disse a Kerwin: «Questa sostanza — non è puro kirian,nel caso sapeste che cos'è, ma il suo liquore — non è esattamente una droga o uno stimolante, ma abbassa la soglia della resistenza alla ricezione telepatica. Non dovete berla, se non lo volete, ma vi aiuterebbe. Per questo la berremo tutti». Si portò il bicchiere alle labbra e poi proseguì: «Ora che siete qui, e che avete avuto la possibilità di riposarvi, è importante sottoporre alla prova il vostro laran,per scoprire l'entità della vostra capacità di leggere i pensieri, i Donas che potete eventualmente possedere, l'addestramento occorrente prima che possiate lavorare con il resto del gruppo... e viceversa. Vi metteremo alla prova in cinque o sei modi diversi, ed è preferibile farlo in gruppo. Perciò...» bevve un altro sorso, «... vi abbiamo dato il kirian».
Kerwin si strinse nelle spalle e si chinò a raccogliere il bicchiere. Il liquore aveva un odore pungente, strano; pareva evaporargli sulla lingua prima che riuscisse ad assaggiarlo. Non corrispondeva certamente alla sua idea di una buona bevuta: l'esperienza ricordava maggiormente quella di annusare profumo che quella di bere liquore. Il gusto era vagamente di limone. Con quattro o cinque piccoli sorsi terminò il bicchiere, ma occorreva berlo lentamente; i suoi vapori erano troppo forti per mandarlo giù in un sorso, come un normale liquore. Kerwin notò che Corus faceva una smorfia, nel bere il suo, come se il sapore gli paresse particolarmente disgustoso. Gli altri, invece, sembravano abituati al suo gusto; Neyrissa faceva ruotare il bicchiere e assaporava il bouquet del liquore come se fosse cognac invecchiato. Probabilmente, rifletté Kerwin, era solo questione di abituarsi al sapore.
Terminò il bicchiere e poi lo posò a terra.
«E che cosa succede, adesso?» chiese. Con sua grande sorpresa, incontrò una certa difficoltà ad articolare le parole; gli sembrava di avere la bocca impastata, e quando ebbe terminato la frase, non riuscì a capire in che lingua avesse parlato. Rannirl si girò verso di lui e gli disse, con un sogghigno che voleva essere rassicurante: «Non c'è da preoccuparsi».
«Non vedo perché fare questo test», disse Taniquel. «Il laran gli è già stato misurato. Quei due, ci hanno risparmiato la fatica.» Mentre la ragazza lo diceva, nella mente di Kerwin si formò un'immagine: la coppia di tecnici, fratello e sorella, che avevano studiato la sua matrice e poi gli avevano detto con arroganza che non lo volevano né nella loro casa né nel loro mondo.
«Che maledetti insolenti!» esclamò Corus, con ira. «Non lo sapevo!»
«Be', è normale...» disse Taniquel.
Kerwin guardò la ragazza seduta ai suoi piedi, che lo fissava con uno sguardo intelligente e amichevole. Era molto vicina a lui. A Kerwin sarebbe bastato abbassare la testa di pochi centimetri per baciarla.
La baciò.
Taniquel si appoggiò a lui e gli sorrise. Appoggiò la guancia contro la sua. «Lo segnalo come positivo per l'empatia, Kennard», disse.
Kerwin fissò con sorpresa il proprio braccio, posato sulle spalle di Taniquel, poi scoppiò a ridere, senza preoccuparsi dell'accaduto. Se la ragazza avesse voluto protestare, lo avrebbe fatto; ma Kerwin capiva che le piaceva sentire sulle spalle il suo braccio, e che le piaceva stare vicino a lui. Auster, con ira, lanciò una serqua di parole incomprensibili, e Neyrissa si girò verso Taniquel e scosse la testa, con disapprovazione.
«Chiya, bambina, questa è una cosa seria!»
«E io ero del tutto seria», disse Taniquel, sorridendo, «anche se i miei metodi non erano del tutto ortodossi.» Tornò ad accostare la guancia a quella di Kerwin, e questi, all'improvviso, sentì un nodo alla gola, e per la prima volta dopo molti anni fu sul punto di piangere. Taniquel aveva smesso di sorridere; si era allontanata leggermente da Kerwin, ma continuava a sfiorargli la guancia, con la mano, come in una promessa.
Disse, piano: «Sapreste trovare un test migliore per l'empatia? Se non ne avesse avuta, non sarebbe successo niente, perché non avrebbe ricevuto il mio messaggio; visto, invece, che l'aveva... be', meritava un premio!» Kerwin sentì che gli premeva le labbra contro la mano, e provò un'emozione indescrivibile. In un certo senso, la dolcezza e l'intimità di quel semplice gesto erano più importanti di qualunque contatto da lui avuto con le altre donne della sua vita. Capì che era stato accettato completamente, come essere umano, e che in qualche modo, lì in quella sala, davanti a tutti gli altri, lui e Taniquel avevano raggiunto un punto di intimità superiore a quello di due amanti.
Gli altri, all'improvviso, avevano cessato di esistere. Kerwin aveva il braccio sulle sue spalle; le fece appoggiare la testa contro il suo braccio, e lei si appoggiò, teneramente, con un gesto caldo e rassicurante: Kerwin non aveva mai provato niente di simile. Alzò lo sguardo, con gli occhi pieni di lacrime, e provò un forte imbarazzo per quella esibizione di emozioni; ma nello sguardo degli altri vide solo comprensione e gentilezza.
Kennard aveva un'espressione meno severa del solito. «Taniquel è la nostra esperta in empatia. Dovevamo aspettarcelo: Jeff ha il sangue dei Ridenow. Anche se è molto raro che un uomo abbia il loro Dono in questa misura.»
Taniquel, senza staccarsi da Kerwin, disse: «Dovete esservi sentito molto solo».
Per tutta la vita. Privo di un posto che potessi dire mio.
Ma adesso siete uno di noi.
Non tutti, però, lo guardavano con benevolenza. Auster incrociò lo sguardo con quello di Kerwin, e questi ebbe l'impressione che se le occhiate avessero potuto incenerire gli uomini, in quel momento di Jeff Kerwin non sarebbe rimasto che qualche tizzone. Auster disse: «Per quanto mi dispiaccia interrompere una scenetta così commovente...»
Taniquel, stringendosi con rassegnazione nelle spalle, lasciò la mano di Kennard. Auster continuava a parlare, ma si stava nuovamente servendo della lingua che Kerwin non comprendeva. Kerwin disse: «Mi spiace, ma non capisco», e Auster ripeté la frase, ma anche ora nella stessa lingua di prima. Poi Auster si rivolse a Kennard e disse qualche parola, sollevando ironicamente le sopracciglia.
Kennard chiese: «Non avete capito le sue parole, Jeff?»
«No, ed è una cosa maledettamente strana, perché capisco benissimo voi e Taniquel.»
Rannirl intervenne: «Jeff, avete capito gran parte di quel che ho detto, vero?»
Kerwin annuì. «Sì, certo. Tranne qualche parola di tanto in tanto.»
«E Mesyr?»
«Senza alcuna difficoltà.»
«Eppure, dovreste capire Auster», disse Rannirl. «Ha sangue Ridenow ed è il vostro parente più prossimo, tranne forse...» Aggrottò la fronte. «Jeff, rispondete senza pensare. In che lingua vi sto parlando?»
Kerwin stava per dire: "La lingua che ho imparato da bambino. Cahuenga,il dialetto di Thendara", ma s'interruppe, confuso. Non lo sapeva. Kennard annuì, lentamente. «Esatto», disse. «È la prima cosa che ho notato in voi. Questa sera vi ho parlato in tre lingue diverse, e voi non avete mai esitato a rispondere nella stessa lingua. Lo stesso vale per Taniquel. Eppure, quando Auster vi ha parlato in due lingue che capivate perfettamente quando eravamo io o Rannirl a parlare, non siete riuscito a capirne una sola parola. Però, anche quando Auster vi parla in cahuenga,voi lo capite solo occasionalmente. Siete un lettore del pensiero, non ci sono dubbi. E, ditemi, non siete sempre stato un eccellente linguista?»
Annuì senza aspettare la risposta di Kennard. «Mi pareva», riprese. «Leggete il pensiero, senza aspettare le parole. Ma tra voi e Auster, semplicemente, non c'è abbastanza risonanza perché leggiate nella sua mente quello che dice.»
«Può darsi che l'armonia venga con il tempo», disse Elorie, senza troppa convinzione, «non appena cominceranno a conoscersi meglio. Non balzare troppo presto alle conclusioni, Zio.» Usò la parola leggermente più intima del semplice "consanguineo" o "cugino" che si usava tra parenti anche lontani: era un termine generico per rivolgersi a un parente della generazione del proprio padre. «Dunque, finora abbiamo accertato che possiede il laran fondamentale, la telepatia, e che ha un alto grado di empatia: il Dono dei Ridenow, in dose più che rispettabile. Probabilmente ha vari altri talenti di minore importanza, e dovremo metterli alla prova uno alla volta, magari entrando in rapporto con lui. Jeff...» Si rivolse a lui, anche se fissava da un'altra parte e se, quando Kerwin cercò di incrociare il suo sguardo, lei non si girò dalla sua parte. «Avete una matrice. Sapete come si usa?»
«Non ne ho la minima idea», rispose Kerwin.
«Rannirl», disse Elorie, «il tecnico sei tu.»
L'interpellato annuì e si rivolse a Kerwin. «Jeff, posso vedere la vostra matrice?»
Kerwin rispose: «Certo», e si sfilò la catena da sotto la tunica, poi se la tolse del tutto e la passò a Rannirl. Questi avvolse le dita in un pezzo di seta isolante e prese la matrice; tuttavia, con una certa sorpresa, quando l'uomo la strinse fra le dita, Kerwin provò una vaga sensazione di disagio. Meccanicamente, senza riflettere, allungò la mano e riprese la pietra. La sensazione di disagio sparì. Kerwin si guardò le mani, stupito del proprio gesto.
«Ne avevo l'impressione», disse Rannirl, con un cenno d'assenso. «È riuscito a sintonizzarla su di sé, anche se in modo approssimativo.»
«Prima», protestò Kerwin, «non era mai successo!» Continuava a fissare la matrice che aveva in mano, stupito del modo in cui si era comportato per proteggere la matrice dal contatto con mani estranee.
«Probabilmente si è sintonizzata mentre vi guidavamo qui», disse Elorie. «Siete stato in rapporto con il cristallo per molto tempo; è per questo motivo che siamo riusciti a raggiungervi.» Tese verso di lui una mano dalle dita affusolate e disse: «Provate a darla a me, se ci riuscite».
Con uno sforzo di volontà, Kerwin permise a Elorie di prendere il cristallo. Sentì il contatto come se le dita delicate della ragazza gli sfiorassero qualche nervo a fior di pelle; non era una sensazione dolorosa, ma Kerwin era fastidiosamente consapevole del contatto, come se quel tocco indefinibile potesse diventare doloroso da un momento all'altro... o potesse dargli un piacere indescrivibile.
«Io sono una Guardiana», spiegò la ragazza. «Una delle capacità indispensabili per il mio lavoro è quella di maneggiare matrici che non sono sintonizzate su di me. Taniquel?»
Kerwin sentì allontanarsi da lui l'ipersensibilità non appena Taniquel prese la matrice da Elorie. La ragazza sorrise e disse: «Non è un test rilevante, perché in questo momento io e Jeff siamo in stretto rapporto». E aggiunse, rivolta a Jeff: «È come se la toccaste voi stesso, vero?»
Kerwin annuì.
«Corus?» chiese Taniquel, porgendogli la matrice.
Kerwin fremette alla sensazione di prurito su tutta la pelle che gli dava il contatto della mano di Corus sulla matrice. Lo stesso Corus rabbrividì come se il contatto gli facesse male, e si affrettò a passare a Kennard il cristallo.
Il tocco di Kennard non era particolarmente doloroso, anche se a Kerwin dava una sensazione sgradevole. La sensazione scomparve leggermente a mano a mano che l'uomo più anziano continuò a tenere il cristallo, ma era ancora qualcosa di forzato, un'intimità non voluta, e Kerwin provò un leggero senso di sollievo quando Kennard passò la matrice a Neyrissa.
Anche adesso la stessa sensazione di violenza nei riguardi della sua sfera privata; una sensazione che si alleggerì un poco con il passare del tempo; Kerwin sentiva il suo respiro, cosa sorprendente perché la donna era all'altro capo della stanza. Neyrissa spiegò tranquillamente: «Sono abituata a lavorare come controllore; posso fare quel che fa Taniquel, risuonare in accordo con il campo magnetico del vostro corpo. Meno di lei perché non siamo così strettamente in rapporto. Finora, tutto bene. Resta solo Auster».
Non appena toccò la matrice, Auster la lasciò cadere come se fosse un carbone acceso. Kerwin sentì il dolore sotto forma di una scossa elettrica che gli percorse i nervi, e si accorse che anche Taniquel rabbrividiva come se avesse sentito la scossa. Neyrissa guardò il cristallo caduto a terra, senza cercare di toccarlo, e disse: «Taniquel, per favore...»
Il dolore cessò non appena Taniquel toccò la matrice; Kerwin trasse un profondo respiro. Anche Auster era impallidito e tremava.
«Per gli inferni di Zandru!» L'occhiata che rivolse a Kerwin, questa volta, era più impaurita che malevola. Parlando in cahuenga (Kerwin ebbe l'impressione che questa volta volesse farsi capire chiaramente) disse: «Mi spiace, Kerwin. Giuro che non l'ho fatto intenzionalmente».
«Lo sa, lo sa», disse Taniquel, in tono conciliante. Lasciò la mano di Jeff e si recò da Auster, lo abbracciò e gli accarezzò con gentilezza la mano. Kerwin li guardò con stupore e con una forte gelosia. Come poteva staccarsi da un contatto emotivo così profondo, con lui,per andare a consolare quell'insopportabile Auster? Con gelosia, continuò a guardare Taniquel, che faceva sedere Auster e lo calmava.
Kerwin si infilò di nuovo la matrice sotto la tunica e per qualche istante Elorie lo guardò in silenzio. Poi, la ragazza disse: «È evidentemente sintonizzata su di voi. Prima lezione sull'impiego delle matrici: anche sotto il kirian,come adesso, non permettete a nessuno di toccare la vostra matrice, a meno che non sia un membro del vostro cerchio e che non siate in rapporto con lui. Tutti abbiamo cercato di raggiungere la massima armonia, perfino Auster, e la cosa, a parte lui, sembra avere funzionato bene. Ma se finisse in mano a un estraneo, potreste ricevere una scossa veramente dolorosa».
Kerwin si chiese come fosse, una scossa "veramente" dolorosa, se Elorie pensava che quella ricevuta da Auster non lo fosse. Guardò con ira Taniquel e Auster, e si sentì offeso e abbandonato.
Rannirl sorrise ironicamente e disse: «Tutto questo, solo per scoprire quel che avevamo già capito al loro arrivo, quando abbiamo visto che Kerwin aveva del sangue sulle labbra. Non c'è empatia tra di loro e non possono risuonare sulla stessa frequenza».
«Eppure, dovranno farlo», disse Elorie, seccamente. «Ci occorrono tutt'e due, e non può esserci tra noi quel tipo di attrito!»
Auster disse, a denti stretti: «Ho già detto che avrei rispettato la decisione della maggioranza. Voi sapete come la penso, ma ho promesso di fare del mio meglio e conto di farlo».
«Nessuno può pretendere che tu faccia di più», disse Taniquel, e Kerwin aggiunse:
«D'accordo. Che cosa viene, adesso?»
Fu Rannirl a spiegarlo. «Può entrare nel Cerchio con il nostro aiuto, ma è in grado di usare la sua matrice? Mettiamolo alla prova con uno schema.»
Kerwin provò all'improvviso una forte apprensione, perché Kennard aveva aggrottato le sopracciglia e Taniquel era di nuovo venuta a prendergli la mano. La ragazza disse: «Se è riuscito a mettere in fase la sua matrice, magari riuscirà anche a ottenere spontaneamente lo schema».
«Sì, e magari i pesci impareranno a volare», disse Kennard, caustico. «Lo metteremo alla prova, in vista della possibilità, ma sarebbe pretendere troppo. Dammi un bicchiere, Taniquel.»
Quando la ragazza glielo ebbe dato, lo posò sul tavolo, girato verso il basso, poi si rivolse a Kerwin. «Jeff, datemi il bicchiere... no, non con le mani», si affrettò a dire, quando Kerwin fece per prenderlo. «È un test.» Indicò il bicchiere. «Cristallizzatelo.»
Kerwin lo guardò, senza capire, e Kennard proseguì:
«Con l'occhio della mente, formate un'immagine di quel bicchiere sotto forma di minuscoli pezzetti. Attento, però, a non romperlo e a non permettergli di esplodere; nessuno vuole essere colpito da frammenti di vetro. Usate la matrice per vedere la sua struttura cristallina.»
A Kerwin tornò in mente Ragan che faceva qualcosa di simile, nel caffè dello spazioporto. Non poteva essere una cosa molto difficile, se Ragan era in grado di farlo. Kerwin fissò con attenzione il bicchiere, poi il materiale stesso di cui era costituito, come se un'intensa concentrazione potesse costringere il cristallo a rivelare la sua struttura, e sentì una particolare scossa...
«No», disse Kennard, seccamente. «Non aiutarlo, Taniquel. So cosa provi, ma dobbiamo esserne sicuri.»
Kerwin continuò a fissare il cristallo, e infine gli occhi presero a bruciargli. «Mi dispiace», mormorò, «ma non riesco proprio a capire come si faccia.»
«Provate ancora», insistette Taniquel, «Jeff, è così semplice. Tutti riescono a farlo: anche i bambini e i terrestri. È poco più di un trucco!»
«Sprechiamo il tempo», disse Neyrissa. «Devi dargli lo schema, Kennard. Non può arrivarci spontaneamente.»
Kerwin li guardò con sospetto, perché Kennard aveva aggrottato la fronte. «Che cosa succede, adesso?»
«Devo mostrarvi come si fa, ed è una tecnica non verbale; dovrò procedere direttamente. Sono un Alton; il rapporto forzato è una delle nostre tecniche caratteristiche.» S'interruppe, e a Kerwin sembrò che tutti lo guardassero con apprensione. Si chiese che cosa stesse per succedere ancora.
Kennard disse: «Fissate il mio dito». Lo sollevò e glielo mise davanti agli occhi. Kerwin lo guardò con curiosità, chiedendosi se intendesse farlo sparire o che altro, e che tipo di test dei poteri mentali fosse quello. Cercò di tenerlo a fuoco mentre Kennard lo tirava indietro molto lentamente. Sentì che l'uomo più anziano gli toccava le tempie, poi...
Non ricordò altro.
Mosse la testa, confuso. Era steso sui cuscini, con la testa posata sulle ginocchia di Taniquel. Kennard lo guardava con preoccupazione. Elorie, dietro Kennard, sembrava soltanto incuriosita. Kerwin aveva la testa pesante, come dopo avere bevuto molti liquori.
«Che diavolo mi avete fatto?» chiese.
Kennard alzò le spalle. «Niente, in realtà. Adesso non ricordate consciamente quello che è successo, ma servirà a rendere più facile quello che dovete fare.» Diede a Kerwin un altro bicchiere. «Adesso, cristallizzatelo.»
«Non ci riesco!» protestò Kerwin.
Sotto lo sguardo severo di Kennard, fissò con ira la matrice. All'improvviso, il bicchiere davanti a lui parve trasformarsi, prendere un aspetto strano. Non era più un semplice pezzo di vetro; a Kerwin parve diverso. Per prima cosa, non era di vetro, perché il vetro è amorfo; il bicchiere era di cristallo, e al suo interno si scorgevano strane tensioni, strani movimenti. Anche all'interno della matrice scorse una strana pulsazione, una tensione emotiva, un equilibrio... I cristalli giacciono su un piano,pensò, e subito il piano gli apparve, e quando lo vide con chiarezza nella propria mente sentì un debole crepitio, e l'immagine tremolò e svanì, e Kerwin fissò con grande incredulità il bicchiere, appoggiato sui cuscini, diviso nettamente in due metà, come se l'avesse tagliato con il coltello. Un altro oggetto surrealistico,pensò. Alcune gocce di kirian si stavano allargando pian piano sui cuscini. Kerwin chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il bicchiere tagliato in due pezzi era ancora al suo posto.
Kennard annuì, soddisfatto. «Non male, per una prima volta. Non proprio preciso, ma sufficiente. La vostra percezione molecolare migliorerà con la pratica. Per gli inferni di Zandru... avete delle barriere foltissime! Vi fa male la testa?»
Kerwin fece per dire di no, ma quando scosse la testa si accorse che gli faceva male. Si toccò le tempie, con attenzione. Elorie lo fissò per qualche istante, con aria fredda e distaccata.
«Difesa mentale», spiegò la ragazza, «contro una tensione insopportabile. È la tipica reazione psicosomatica, è come se diceste a voi stesso: Se sentirò dolore, la smetteranno di farmi del male e mi lasceranno stare. E Kennard ha sempre paura di fare del male alle persone; si è fermato, perché non provaste un dolore troppo forte. Il dolore è la migliore difesa contro l'invasione della mente. Per esempio, se qualcuno cercasse di leggervi nei pensieri, e non ci fosse un attenuatore, la migliore difesa consiste nel mordervi il labbro, a sangue. Sono pochissimi i telepatici che riescano a superare una difesa del genere. Potrei darvi una spiegazione tecnica sulle vibrazioni affini e le cellule nervose, ma per il momento non ce n'è bisogno. Ed è un compito che preferisco lasciare ai nostri tecnici.»
Si avvicinò all'armadietto dove venivano tenuti i liquori, prese da una boccetta tre piccole compresse verdi e le diede a Kerwin, senza toccarlo.
«Prendetele. In un paio d'ore, il dolore passerà. Quando vi sarete impratichito, non ne avrete bisogno, perché potrete operare direttamente sui canali dell'energia, ma nel frattempo...»
Obbediente, Kerwin inghiottì le compresse; poi guardò con incredulità il bicchiere tagliato nettamente in due pezzi. «Sono davvero stato io a farlo?» chiese.
«Be', non è stato nessun altro», rispose Rannirl, asciutto. «E potete calcolare anche voi la probabilità che tutte le molecole perdano la tensione, per caso, lungo una linea come quella. Dire che sia una su cento trilioni equivarrebbe a essere straordinariamente ottimisti.»
Kerwin prese le due metà e passò il dito sul bordo di frattura: era netto e tagliente. Cercava qualche spiegazione in grado di soddisfare la metà terrestre della sua mente, e si gingillava con frasi come "percezione subliminale della struttura atomica". Maledizione, per un attimo aveva visto come il cristallo fosse tenuto insieme da un complesso di forze e di tensioni. A scuola, ricordò, aveva imparato che gli atomi erano solo insiemi di particelle, che un oggetto materiale era costituito unicamente di una grande quantità di infinitesimali forze statiche. Il concetto gli faceva girare la testa.
«Imparerete», gli disse Rannirl, «oppure potrete sempre fare come Taniquel, che pensa a tutto questo come a una magia. Ci si concentra, si agita la mano e... puf.... la magia fa tutto!»
«Così è più facile», protestò Taniquel. «E funziona,anche se non calcolo il valore esatto delle tensioni molecolari...»
«E così finisci per fare il gioco delle persone che hanno idee superstiziose su di noi!» disse con ira Elorie. «Si vede che ti piace, quando ti chiamano strega e fattucchiera.»
«Lo farebbero lo stesso, indipendentemente dal nome che do a me stessa», disse Taniquel, tranquillamente. «L'hanno sempre detto di Mesyr, che ai suoi tempi era uno dei migliori tecnici. Che importanza può avere quello che pensano, Elorie? Noi sappiamo quello che siamo. Oppure, come dice quel proverbio che Kennard ama tanto, vuoi imparare la filosofia dai latrati del tuo cane?»
Elorie non rispose. Kerwin prese i due pezzi del bicchiere e li accostò tra loro, fissandoli con irritazione. Ancora una volta gli giunse il nuovo tipo di percezione, l'intuizione di vedere al di sotto della superficie, tutte le forze e le tensioni della struttura del cristallo...
Ora il bicchiere che teneva tra le mani era di nuovo intero, saldato con precisione, anche se una piccola discontinuità sull'orlo contrassegnava la zona della frattura.
Kennard sorrise, con sollievo. Disse: «Adesso, ci resta un solo test».
Kerwin non riusciva a staccare gli occhi dal bicchiere leggermente fuori quadro. Chiese: «Posso tenerlo?»
Kennard annuì. «Portatelo con voi.»
Anche ora Kerwin sentì le piccole dita di Taniquel stringere le sue, e si accorse che era spaventata: sentì la sua paura come un dolore dentro il proprio corpo. «È davvero necessario, Kennard?» implorò. «Non puoi metterlo all'esterno del Cerchio e vedere se riesce ad aprirsi in quel modo?»
Elorie la guardò e scosse la testa. «Taniquel, quel modo non funziona quasi mai. Neppure in un semplice Cerchio di meccanici.»
Kerwin cominciò di nuovo ad avere paura. Aveva superato bene gli altri test, e cominciava a essere orgoglioso di quel che aveva compiuto. «Che cosa c'è, Taniquel?» chiese.
Ma fu Elorie a rispondergli, gentilmente: «Kennard vuol dire solo questo: che adesso dobbiamo mettervi alla prova all'interno di un Cerchio, per vedere se siete adatto a entrare nei relè... i nodi della forza. Sappiamo che siete un empatico di alto livello, e avete superato i test fondamentali. Avete abbastanza potere psicocinetico per diventare un buon meccanico delle matrici, non appena avrete imparato come si fa. Ma il vero test è questo: vedere come vi fondete con gli altri di noi». Si rivolse a Kennard. «Tu l'hai provato in rapporto mentale; sai come lavora sugli schemi. Come sono le sue barriere?»
«Altissime», disse Kennard. «Come ti aspetteresti di trovarle, visto che è cresciuto fra i ciechi mentali?» Poi spiegò a Kerwin: «Intendo dire che ho forzato il rapporto mentale, per darvi lo schema...» Indicò il bicchiere prima tagliato e poi ricongiunto, e leggermente storto. «E così ho avuto il modo di constatare la forza delle vostre difese. Tutti abbiamo una difesa naturale contro l'invasione telepatica. Il termine che usiamo per definirla è barriera; uno schermo protettivo tra telepatici, per impedirvi di trasmettere i vostri pensieri a tutti coloro che vi circondano, e per evitarvi di raccogliere un mucchio di "rumore" telepatico di fondo... dopotutto, non avete bisogno di sentire lo stalliere che si chiede quale cavallo sellare per primo, o il cuoco perplesso su quel che deve cucinare. Tutti, come dicevo, abbiamo questa difesa; è un riflesso condizionato, e più forte è il telepatico, in generale, più forte è la barriera. Ebbene, quando lavoriamo in un Cerchio, dobbiamo imparare ad abbassare quella barriera, a lavorare senza il riflesso protettivo. Molti di noi hanno cominciato a lavorare nelle Torri quando avevano una quindicina di anni, e hanno imparato ad alzare e ad abbassare consapevolmente quella barriera. Voi, dato che siete cresciuto in un ambiente di non telepatici, avete probabilmente imparato a tenerla sempre alzata. A volte la barriera si rifiuta di cadere, e occorre aprirla con la forza. Dobbiamo controllare quanto sono forti le vostre difese, e l'entità della vostra resistenza.»
«Ma perché farlo questa sera?» chiese Mesyr, prendendo per la prima volta la parola. Kennard aveva l'impressione che si considerasse un po' in disparte rispetto agli altri, ora che non faceva più parte del loro Cerchio di matrici. «Si è comportato bene, finora; perché affrettare le cose? Non potete dargli tempo?»
«Il tempo è l'unica cosa che non possiamo dargli», rispose Rannirl. «Ricordate, il nostro tempo è limitato.»
«Rannirl ha ragione», disse Kennard, guardando Kerwin con aria quasi di scusa. «Abbiamo fatto venire Kerwin perché siamo disperatamente privi di personale qui ad Arilinn e se non possiamo usarlo nel Cerchio, sai anche tu come finiremo.» Si guardò attorno, scuotendo la testa. «Dobbiamo metterlo in grado di lavorare con noi, e in fretta, altrimenti...» Non concluse la frase.
«Stiamo sprecando il tempo», disse Elorie, e si alzò. Il suo vestito svolazzò attorno a lei, come un impalpabile soffio d'aria. «Ma è meglio farlo nella stanza delle matrici.»
A uno a uno si alzarono; alla stretta di Taniquel sulle sue dita, anche Kerwin si alzò. Kennard guardò con pietà Taniquel e disse: «Mi dispiace, Taniquel; sai benissimo perché non puoi venire. Il legame fra te e lui è già troppo forte. Farà da controllore Neyrissa». A Kerwin spiegò: «Taniquel è la nostra empatica, ed è in rapporto con voi. Se lei entrasse nel Cerchio, vi aiuterebbe troppo; non potrebbe farne a meno. In futuro, il rapporto tra voi rafforzerà il legame e aiuterà il Cerchio, ma non ora che vi dobbiamo mettere alla prova. Taniquel, devi rimanere qui».
Con riluttanza, la ragazza gli lasciò la mano. Kerwin si sentì improvvisamente solo, ed ebbe una sensazione di freddo; evidentemente, il senso di calore, di sicurezza che aveva provato fino a poco prima facevano parte di quello che Taniquel gli trasmetteva. All'improvviso, provò una grande paura.
Rannirl disse: «Su, con il morale», e lo prese per il braccio, senza stringerglielo. Il gesto era rassicurante, ma il tono non lo era; aveva troppo l'aria di una scusa.
Kennard fece un gesto con il braccio, e tutti si avviarono in gruppo verso il fondo della stanza, poi salirono una rampa di scale e percorsero un breve corridoio, fino a una stanza senza finestre che Kerwin non aveva mai visto. Era piccola e aveva forma ottagonale. Lungo le pareti c'erano vetri e superfici lucide che riflettevano le immagini e le distorcevano fino a renderle irriconoscibili. Kerwin vide se stesso sotto forma di una sottile striscia di uniforme nera sormontata da una macchia rossa di capelli. Nel centro della stanza c'era un'area libera, più in basso rispetto al pavimento, a forma di cerchio, circondata da cuscini, e Kerwin vide che i suoi compagni si accomodavano in un ordine stabilito. Al centro del cerchio c'era un tavolino basso, con un appoggiatoio di giunchi intrecciati, simile a quello che Kerwin aveva già visto in casa della Sapiente che era morta nel tentativo di leggere la sua matrice. Anche ora, Kerwin ebbe l'impressione di rivivere una scena già nota. Sull'appoggiatoio c'era un cristallo, più grande di quelli che Kerwin aveva visto fino a quel momento. Rannirl gli mormorò all'orecchio: «È il reticolo del relè», frase che per Kerwin non aveva alcun senso. Per farsi capire, allora Rannirl aggiunse: «È un reticolo sintetico, non una matrice naturale», ma neanche questo gli disse molto.
«Stacchiamoci dai relè, Neyrissa, almeno per questa notte», disse Elorie. «Non c'è motivo di far sapere alla Torre di Neskaya quel che facciamo qui, e non credo che Hali voglia saperlo!»
Neyrissa si accostò al tavolino centrale e si avvolse le mani in una striscia di seta isolante, come aveva fatto la Sapiente di Thendara. Si piegò sul cristallo, e anche ora Kerwin ebbe la netta impressione di avere già assistito a una scena come quella, e la cosa gli diede un leggero fastidio. Che cosa gli stava succedendo? si chiese. Non era mai stato in una camera delle matrici, non aveva mai visto costituirsi un Cerchio... Era un'illusione, una falsa percezione causata dallo sfasamento tra l'interpretazione data dalle due parti del cervello, si disse con ira; nient'altro che quello.
Sentì chiaramente la corrente di pensieri, il "rumore mentale" di sottofondo, e poi, forte come se parlasse, anche se Neyrissa non aveva aperto bocca: Ad Arilinn stiamo facendo dei test, per ventiquattr'ore ci terremo fuori dei relè.
Con attenzione, proteggendosi la mano, Neyrissa prese dal basamento l'enorme pietra matrice. «Siamo protetti», disse, «e fuori degli schermi.» Portò via il cristallo e lo chiuse in un armadietto, dopo averlo avvolto con cura nella seta. Poi, invece di ritornare al centro del Cerchio, disse a Elorie, parlando in modo curioso, solenne: «Il Cerchio è nelle vostre mani, tenerésteis». Senza sapere come, Kerwin capì che era l'antico termine per designare il Guardiano.
Elorie posò sul sostegno il proprio cristallo, sfilandoselo dal collo. Rivolse un'occhiata interrogativa alle altre persone del cerchio. Kennard annuì immediatamente, Neyrissa e Rannirl qualche istante dopo. Auster fece per un attimo la faccia dubbiosa, ma alla fine disse: «Mi rimetto al tuo giudizio, Elorie. Fin dall'inizio ho detto che avrei seguito la decisione della maggioranza».
Il giovane Corus sporse le labbra e guardò Kerwin con scetticismo. Disse: «Credo che Mesyr avesse ragione. Era meglio attendere. Ma posso farcela, se riesce a farcela lui».
Elorie, invece, guardava Auster; questi disse a Kerwin qualcosa di incomprensibile, ed Elorie annuì in segno d'assenso. Kennard si sporse verso Kerwin e disse: «Finché voi e Auster non sarete riusciti a entrare in risonanza, dovremo tenervi su livelli separati».
Elorie disse: «Per primo, prenderò Auster, e per ultimo Kerwin». Passò lo sguardo da Rannirl a Kerwin, e infine disse: «Kennard, per primo prendilo tu». Si guardò nuovamente attorno, cambiò posizione; Kerwin vide che tra i membri del Cerchio si svolgeva un'intera conversazione fatta di movimenti impercettibili, di sguardi, di conferme che non avevano bisogno di parole. Elorie abbassò la testa, fissò per un attimo la propria matrice, poi sollevò la mano e la puntò verso Auster.
Kerwin continuò a guardare con apprensione, sensibile a quelle correnti di pensiero, e sentì come una linea di forza palpabile che collegava ad Auster la ragazza; poi, quando entrarono in rapporto, sentì nell'aria una piccola scarica elettrica.
Una corrente di emozione nella stanza, come un tizzone sotto la cenere, una fiamma nascosta, che brucia contro il ghiaccio...
Rannirl...
Forze contrastanti, allineamento, un robusto ponte sopra un abisso...
«Corus», disse Elorie, e Kerwin seppe, raccogliendo dei fili di pensiero che gli giungevano dai compagni, che Corus era ancora giovane e inesperto e aveva bisogno del segnale verbale per mettersi in rapporto. Sorridendo nervosamente, il giovane si coprì con le mani la faccia e aggrottò la fronte per l'intensa concentrazione. Sembrava ancor più giovane della sua età. Kerwin, che continuava a captare l'atmosfera mentale della stanza, percepì una curiosa immagine di mani e braccia che si intrecciavano, come quelle degli acrobati sul trampolino, e si tenevano saldamente...
Neyrissa, giunse il silenzioso comando mentale, e all'improvviso la stanza si riempì di minuscole particelle elettriche, di una rete di scintille collegate tra loro. Per un momento, Kerwin vide i suoi compagni fondersi insieme: un rimescolio di occhi, facce che giravano come in un turbine, e quando Kennard entrò nel Cerchio, lo vide staccarsi da lui e fuggire, mentre le facce diventavano minacciose...
«State calmo», gli sussurrò Kennard. «Vi porterò io...» Poi la figura di Kennard si allontanò, la sua voce si fece più esile, gli parlò come da una distanza immensa. Le facce continuavano ad attendere, vigili, e Kerwin solo allora si accorse che non le vedeva con gli occhi, ma con la mente... Kerwin si manteneva ai margini del rapporto, non riusciva a entrarvi pienamente; il rapporto gli sembrava una trappola che cercava di catturarlo...
Elorie sussurrò: «Jeff», ma, anche se lo disse a bassa voce, quel suono sembrò un urlo.
Rinuncia alla resistenza ed entra in contatto, è facile. La voce che gli parlò nella mente assomigliava alle istruzioni che gli erano state impartite per trovare la casa di Kennard, mentre si muoveva a casaccio lungo le vie di Thendara. Sapeva dove erano i suoi compagni, sentiva il Cerchio che lo attendeva per chiudersi, in qualche modo lo vedeva sotto forma di un anello di persone che si tenevano per mano, con uno spazio vuoto per lui... ma come muoversi in quella direzione? Kerwin rimase immobile, disorientato, come se volesse ritrarsi dalle loro mani tese, e all'improvviso gli parve di trovarsi su un profondo abisso, in attesa del segnale per gettarsi su un bersaglio in movimento... Questa immagine mentale, lo sapeva, gli veniva da Corus, ma Kerwin non sapeva perché il giovane gliel'avesse trasmessa; tuttavia provava lo stesso timore paralizzante, timore del vuoto, terrore di cadere per sempre... che cosa doveva fare, maledizione? Tutti erano convinti che lui lo sapesse.
Potete farcela, Jeff. Avete il Dono. Era Kennard, in tono implorante.
È inutile, Kennard. Non riesce a farcela.
Quella barriera è soltanto un riflesso condizionato. Dopo vent'anni in mezzo ai terrestri, sareste impazzito, se non l'aveste avuta. La faccia di Kennard pareva tremare nella curiosa luce della stanza, riflessa dal cristallo di Elorie, che, come un prisma, lanciava guizzi di colore in tutta la stanza. Kerwin vedeva muoversi le labbra di Kennard, ma non sentiva le parole. Sarà dura. Vent'anni. È stata dura per Auster dopo cinque, e lui era puro Comyn.
Kennard si muoveva confusamente, illuminato dalla luce della stanza. Pareva muoversi sott'acqua.
Cercate di non opporvi, Jeff.
All'improvviso, come una stilettata, sentì il colpo: indescrivibile, incredibile, così alieno e indefinibile che poteva essere interpretato solo come dolore... in una frazione di secondo, capì che Kennard l'aveva già fatto in precedenza, che era quella, la cosa che non si lasciava sopportare e che poi non veniva ricordata; quell'intollerabile contatto, un'intrusione, una violazione... come se gli scavassero nella testa con un trapano da dentista. Lo sopportò per circa cinque secondi, poi venne scosso da una convulsione e sentì qualcuno gridare da un milione di chilometri di distanza, mentre scivolava nell'oscurità.
Quando ne uscì, questa volta, era disteso sul pavimento della stanza ottagonale delle matrici, e Kennard, Neyrissa e Auster, fermi sopra di lui, lo fissavano. Da qualche parte si udiva un pianto: Kerwin si girò in quella direzione e vide il giovane Corus, con la faccia nascosta tra le mani. Rannirl gli aveva posato una mano sulle spalle e cercava di calmare il ragazzo. Kerwin si sentiva scoppiare la testa per il dolore: era talmente forte che per qualche istante non riuscì neppure a respirare. Infine, tutto il fiato gli sfuggì sotto forma di un sospiro involontario.
Kennard si inginocchiò accanto a lui e gli chiese: «Riuscite a sedervi?»
In qualche modo, Kerwin riuscì a farlo. Auster, con aria triste, gli porse la mano per aiutarlo e disse, in tono stranamente amichevole: «Jeff, ci siamo passati tutti, in un modo o nell'altro. Venite, vi aiuto ad alzarvi». Con sorpresa, Kerwin accettò la mano del darkovano. Kennard chiese:
«E tu, Corus, sei a posto?»
Corus sollevò la faccia; era arrossata e bagnata di lacrime. Aveva l'aria sofferente, ma disse: «Posso sopportarlo».
Con distacco, gentilmente, Neyrissa si rivolse a Kerwin e disse: «Siete voi stesso a crearvi il dolore, lo sapete. Avete la possibilità di farlo cessare».
Con la voce tesa, intervenne Elorie: «Cerchiamo di fare in fretta. Nessuno di noi può sopportarlo a lungo». Tremava, ma tese la mano a Corus; Kerwin, all'interno della propria mente, sentì come uno scatto e come una scossa elettrica: la rete che si era spezzata tornava a formarsi. Prima Auster, poi Rannirl e Neyrissa si congiunsero nuovamente a essa; Kennard, che continuava a tenere per il braccio Kerwin, si unì a sua volta e scomparve alla vista mentale di questi. Elorie non disse nulla, ma all'improvviso i suoi occhi grigi riempirono tutto lo spazio della stanza e Jeff sentì il suo comando; un semplice sussurro mentale, ma irresistibile:
Vieni.
Con una scossa che gli tolse tutto il fiato che aveva nei polmoni, Kerwin sentì l'urto delle loro menti riunite e provò la sensazione di precipitare in una delle facce della pietra matrice. Una figura simile a un fiore di fuoco gli brillò nella mente, e Kerwin ebbe l'impressione di girare intorno al Cerchio, scorrendo come un ruscello, avvicinandosi fino a sfiorare il Cerchio per poi ritrarsi immediatamente; Elorie, con fredda efficienza, lo teneva ben saldo, come se fosse legato a una fune di ancoraggio... Kennard gli trasmetteva sicurezza; da Corus veniva un contatto esitante, spaventato, leggero come una piuma; Auster era come uno scoppio di fiamma, una cascata di scintille rabbiose; Neyrissa un contatto sottile, insinuante...
«Basta così», disse Kennard, seccamente, e all'improvviso Kerwin tornò a essere se stesso, e gli altri non erano più intangibili vortici di energia nella stanza, ma persone distinte l'una dall'altra, raggruppate intorno a lui.
Rannirl si lasciò sfuggire un fischio. «Per gli inferni di Zandru, che barriera! Se riusciremo ad abbatterla completamente, Jeff, diventerete un tecnico di prim'ordine, ma per prima cosa occorre abbattere quella barriera!»
Corus disse: «La seconda volta, è andata quasi bene. È riuscito a farcela, almeno in parte».
A Kerwin, la testa pulsava ancora come una massa di fiamme. «Mi opponevo ancora...» disse. «Qualunque fosse la cosa che intendevate fare...»
«Siamo riusciti ad abolire una parte della resistenza», disse Kennard. Aggiunse altre parole, ma all'improvviso Kerwin non riuscì più a capirlo: le parole erano prive di significato. Elorie fissò Kerwin, aggrottando la fronte; disse qualcosa, ma le sue parole furono solo dei suoni, dei rumori vuoti, all'orecchio di Kerwin, il quale scosse la testa, senza capire.
Kennard chiese, in cahuenga: «Il mal di testa va meglio?»
«Sì, certo», rispose Kerwin; non era vero, anzi, stava peggiorando, ma il giovane non aveva l'energia per dirlo. Kennard non fece commenti. Prese saldamente Kerwin per le spalle e lo portò nella stanza accanto a quella della matrice. Là giunto, lo fece riposare su una poltrona imbottita.
Un istante più tardi, sopraggiunse anche Neyrissa, che disse: «Ci penso io; è il mio lavoro», e appoggiò con leggerezza le dita sulla fronte di Kerwin.
Questi non fece commenti. Ormai aveva superato quello stadio. La testa gli girava sempre più veloce, come in una giostra di dolore che cancellava ogni altra sensazione. Elorie disse una frase, e Neyrissa si rivolse in tono pressante a Kerwin, ma questi non capì neppure una parola. Anche la voce di Kennard era unicamente una successione di sillabe incomprensibili, un'insalata di parole, un polpettone verbale. Kerwin sentì unicamente Neyrissa che diceva: «Non riesco ad arrivare fino a lui; chiama Taniquel, fa' in fretta. Forse lei è in grado di...»
Le parole si alzavano e si abbassavano attorno a Kerwin come canzoni cantate in strani linguaggi; il mondo era ridotto a una nebbia grigia, e la sua testa era avvolta in pulsazioni di dolore, che lo spingevano sempre più lontano, verso il buio e il nulla...
Poi arrivò Taniquel, che all'inizio fu solo una macchia indistinta davanti ai suoi occhi. Con un grido di dolore, la ragazza si inginocchiò accanto a lui.
«Jeff! Oh, Jeff, riuscite ad ascoltarmi?»
E come non ascoltarla, pensò Kerwin, con l'irrazionalità di chi soffre, visto che gli gridava proprio nell'orecchio?
«Jeff, per favore, guardatemi, lasciate che vi aiuti...»
«No, basta...» mormorò Kerwin. «Per questa sera, non vi basta ancora?»
«Vi prego, Jeff, non posso aiutarvi, se non siete voi stesso a permettermelo...» lo supplicò Taniquel. Kerwin sentì sulla fronte il contatto della sua mano: era doloroso, bruciante. Cercò di contorcersi, di allontanare da sé quella mano, che sembrava di ferro arroventato. Perché non se ne andavano via, tutti, e non lo lasciavano solo?
Poi, lentamente, come se una vena piena di dolore cominciasse a svuotarsi, Kerwin sentì allontanarsi il dolore. Di momento in momento si allontanò da lui, che infine riuscì a distinguere chiaramente il viso della ragazza. Si rizzò a sedere; il dolore era solo una leggera pulsazione, alla base del cervello.
«Bene», gli disse Kennard, allegramente. «Penso che prima o poi riusciremo a liberarvene.»
Auster mormorò: «Non ne vale la pena!»
«Queste parole le ho capite», disse Kerwin, e Kennard fece lentamente un segno d'assenso.
«Vedete?» chiese. «Ve l'avevo detto. Vi avevo detto che valeva la pena di correre il rischio.» Trasse un profondo sospiro.
Kerwin si alzò in piedi a fatica e si tenne allo schienale della poltrona. Aveva l'impressione di essere passato sotto un rullo compressore, ma adesso, alla fine, era dolorosamente in pace con se stesso. Taniquel era accovacciata vicino alla sua poltrona ed era pallida ed esausta; accanto a lei c'era Neyrissa, che le teneva la testa. La ragazza disse debolmente, alzando gli occhi: «Non preoccupatevi per me, Jeff. Sono lieta di avere potuto fare qualcosa per voi».
Anche Kennard aveva l'aria stanca, ma sembrava trionfante. Corus alzò la testa e sorrise a Kerwin, che solo allora capì un particolare: il ragazzo piangeva per il suo dolore. Lo stesso Auster, mordendosi il labbro, disse: «Devo ammetterlo. Siete uno di noi. Non potete biasimarmi per averne dubitato, ma... be', non serbatemi rancore».
Elorie si avvicinò a Kerwin, in punta di piedi; abbastanza vicino da poterlo abbracciare, ma non lo abbracciò. Si limitò a sollevare una mano e a sfiorargli la guancia con una carezza leggera come una piuma. Disse: «Benvenuto tra noi, Jeff il Barbaro», e gli sorrise.
Rannirl lo prese sotto il braccio, quando fecero ritorno nella grande sala dove si erano riuniti poco prima. «Almeno, questa volta, possiamo decidere noi che cosa bere», disse, sorridendo, e a quel punto Kerwin capì che i test erano finiti. Taniquel lo aveva accettato fin dal primo momento, ma ora anche gli altri lo avevano accettato con la stessa profondità. Jeff Kerwin, che non era mai appartenuto a nessun pianeta, adesso era sopraffatto dalla constatazione di appartenere completamente a quel gruppo. Taniquel si accostò a lui per sedersi sul bracciolo della poltrona. Giunse anche Mesyr, che chiese a Kerwin se volesse qualcosa da bere o da mangiare. Rannirl gli servì un bicchiere di un vino fresco e fragrante che sapeva vagamente di mele, e gli disse: «Penso che questo vi piacerà. Viene dalle nostre tenute». Il tutto era privo di logica come a una festa di compleanno.
Più tardi, quella sera, Kerwin si trovò vicino a Kennard. Sensibile all'umore dell'uomo più anziano, gli chiese: «Mi sembrate lieto di quel che è successo. Auster non è soddisfatto, ma voi sì. Perché?»
«Perché io sono allegro o perché non lo è Auster?» chiese Kennard, con un sorriso.
«Tutt'e due», rispose Kerwin.
«Perché siete in parte terrestre», rispose Kennard, cupo. «E se entrerete davvero a far parte di un Cerchio di matrici... ossia, all'interno di una Torre... e se il Consiglio lo accetterà, allora c'è anche la possibilità che accetti i miei figli.»
Aggrottò la fronte e distolse lo sguardo da Kerwin.
«Vedete», disse, dopo qualche istante. «Ho fatto anch'io come Cleindori. Mi sono sposato con una donna che non era dei Comyn... una donna che aveva una parte di sangue terrestre. E ho due figli. Il vostro caso stabilisce un precedente. E amo pensare che un giorno anche i miei figli possano entrare qui...» S'interruppe e non parlò più. Kerwin avrebbe voluto fargli altre dieci domande, ma capì che non era il momento adatto. Ma la cosa non aveva importanza. Ormai, lui era uno di loro.
CAPITOLO 8
IL MONDO ESTERNO
Dopo quella prima giornata trascorsa ad Arilinn, ben presto Kerwin perse il conto dei giorni e cominciò a sentirsi come se fosse vissuto laggiù per tutta la vita. Eppure, in un modo curioso, era come un uomo perso in un sogno fatato, come se tutti i suoi vecchi sogni e desideri avessero preso vita ed egli fosse entrato nel mondo dei sogni per poi chiudere la porta dietro di sé. Era come se la Zona Terrestre e la sua città commerciale non fossero mai esistite. Non gli era mai successo, in nessuno dei mondi da lui visitati, di sentirsi altrettanto a casa propria; non aveva mai avuto la sensazione di appartenere a un luogo come ora apparteneva a quello. Tanta felicità gli dava quasi una sorta di inquietudine; non era abituato a provarla.
Sotto la guida di Rannirl, studiò la meccanica delle matrici. Non si spinse molto avanti nella teoria; più volte pensò che Taniquel non aveva tutti i torti a ritenerla qualcosa di magico. Si consolò pensando che neanche ì piloti spaziali conoscevano la matematica del viaggio nell'iperspazio, se era solo per quello, ma che le navi viaggiavano lo stesso. Kerwin faceva molto in fretta a imparare i piccoli "trucchi" psicocinetici con i cristalli matrice; e Neyrissa, il controllore del gruppo, gli insegnò a penetrare nel proprio corpo, per seguire il disegno del sangue che gli scorreva nelle vene, per alzare o abbassare la sua pressione, per controllare il flusso di quelli che venivano chiamati i "canali di energia" e che un medico terrestre avrebbe chiamato sistema nervoso autonomo. Era un'attività assai più complessa di qualsiasi tecnica riflessologica nota ai medici della Zona Terrestre.
Non furono altrettanto ràpidi, invece, i suoi progressi nell'entrare in rapporto all'interno del Cerchio. Imparò a fare il suo turno — con Corus e Neyrissa al fianco — nei relè, la rete di comunicazioni telepatiche fra le varie Torri, che serviva a trasmettere messaggi e informazioni tra Neskaya, Arilinn, Hali e la lontana Dalereuth; messaggi che non avevano molto significato per Jeff, e che a volte parlavano di un incendio boschivo sui Monti Kilghard, o di scorrerie di banditi ai margini degli Hellers, di un contagio a Dalereuth, della nascita di tre gemelli nei pressi della Regione dei Laghi. Anche privati cittadini si presentavano nella Stanza degli Estranei della Torre e chiedevano di trasmettere i loro messaggi, che in genere riguardavano questioni d'affari, notizie di nascite o di morti, o accordi matrimoniali.
Ma Kerwin incontrava difficoltà a lavorare nel Cerchio. Sapeva che tutti erano ansiosi di vedere i suoi progressi, ora che lo avevano accettato tra loro; a volte, Kerwin aveva l'impressione che lo sorvegliassero come falchi. Taniquel ripeteva che cercavano di farlo muovere troppo in fretta, mentre Auster aggrottava la fronte e accusava Kennard ed Elorie di avere troppi riguardi nei suoi confronti. Ma per ora Kerwin riusciva a entrare solo per pochi minuti alla volta nel Cerchio delle matrici. Evidentemente, era qualcosa che richiedeva tempo, ma di giorno in giorno Kerwin aumentava di qualche frazione di minuto la sua resistenza, prima che lo stress del contatto avesse la meglio su di lui.
I mal di testa continuavano, e semmai erano addirittura peggiorati, ma per qualche motivo che Kerwin non riuscì a capire, i suoi compagni non parevano dare loro molta importanza. Neyrissa gli insegnò a controllarli in qualche piccola misura, regolando la pressione sanguigna nelle vene attorno agli occhi e all'interno del cranio. Ma tante volte Kerwin si accorgeva di non poter sopportare altro che una stanza buia e il più assoluto silenzio, con la testa che sembrava spaccarsi in due. Corus lo prendeva in giro per quello, e Rannirl commentava ironicamente che avrebbe continuato a peggiorare prima di riuscire a migliorare, ma tutti furono pazienti con lui; una volta, addirittura, quando era chiuso nella sua stanza, con un mal di testa feroce, Kerwin senti Mesyr — a cui credeva di essere antipatico — protestare contro Elorie (che invece, secondo Kerwin, era la sua protetta) perché parlava a voce alta in un corridoio vicino alla sua stanza.
Una volta o due, quando il dolore era insopportabile, Taniquel entrò nella sua stanza senza bisogno che lui la chiamasse, e fece come aveva fatto la prima notte, ossia gli toccò le tempie e gli portò via il dolore, come se avesse aperto un canale da cui farlo defluire. Kerwin sapeva che non le piaceva fare quel tipo di interventi. Dopo averli fatti, rimaneva spossata, e lo stesso Kerwin si allarmava — e si vergognava, anche — di vederla pallida ed esausta. E la cosa, inoltre, faceva infuriare Neyrissa.
«Deve imparare a farlo da solo, Taniquel. Fai male, e gli fai male, a compiere per lui quello che dovrebbe imparare a fare da solo! E adesso guarda come ti sei ridotta», la sgridò. «Adesso, hai bisogno di riposo anche tu!»
Taniquel rispose, con un filo di voce: «Non riesco a sopportare il suo dolore. E dato che devo sentirlo in qualsiasi caso, tanto vale che lo aiuti».
«Allora, impara ad alzare una barriera», la ammonì Neyrissa. «Un controllore non deve mai farsi coinvolgere emotivamente, lo sai! Se continuerai così, Taniquel, sai bene quel che ti succederà!»
Taniquel le rivolse un sorriso malizioso. «Perché, sei gelosa, Neyrissa?» Ma la donna più anziana si limitò a rivolgere un'occhiataccia a Kerwin e uscì dalla stanza.
«Che cosa voleva dire, Taniquel?» chiese Kerwin, ma la ragazza non rispose. Kerwin si chiese se sarebbe mai giunto a capire le piccole interazioni fra quella gente, l'etichetta e tutte le cose lasciate tra le righe in una società di telepatici.
Comunque, aveva cominciato a rilassarsi. Per strana che fosse, la Torre di Arilinn non era un castello fatato, bensì soltanto una grossa costruzione in pietra dove abitava un certo numero di persone. I silenziosi servitori non umani lo mettevano leggermente a disagio, ma per fortuna Kerwin li vedeva solo raramente, e si abituava progressivamente a ignorarli come facevano gli altri, tolti i casi in cui chiedeva loro qualcosa. Il luogo non era abitato da stregoni e da diavoli. La torre incantata non era incantata affatto. Per qualche strano motivo, si sentì quasi compiaciuto quando scoprì un falla nel tetto, proprio sopra la sua stanza, e poiché nessun estraneo venuto dell'esterno avrebbe potuto oltrepassare il Velo, lui e Rannirl dovettero arrampicarsi sul tetto, rischiando le vertigini, e provvedere alla riparazione. In qualche modo, quell'incidente prosaico servì a rendergli più concreta, meno fantastica, la Torre di Arilinn.
Cominciò a imparare il linguaggio che parlavano tra loro — lo chiamavano casta — perché anche se poteva capirlo e parlarlo telepaticamente, prima o poi si sarebbe trovato a contatto con persone del luogo non telepatiche. Lesse la storia di Darkover scritta dal punto di vista darkovano, non da quello terrestre; non esistevano molti libri, ma Kennard era una sorta di letterato, e aveva una completa storia dei giorni dei Cento Regni — epoca che a Kerwin sembrò assai più complicata di quella dell'Europa medievale — e un'altra delle Guerre degli Hastur, che alla fine delle Epoche del Caos avevano unificato gran parte del pianeta, riunendole nei Sette Regni sotto il Consiglio dei Comyn. Kennard lo avvertì che non esisteva una storia accurata di quei tempi; i repertori da lui posseduti erano stati scritti facendo appello alla tradizione, alle antiche ballate e alle storie tramandate oralmente, poiché per quasi mille anni l'arte della scrittura era rimasta confinata ai monaci del monastero di San Valentino, a Nevarsin, e la cultura precedente era andata persa. Da tutto questo, Jeff ricavò l'impressione che un tempo Darkover avesse avuto una tecnologia delle matrici molto sviluppata, e che l'abuso di quella tecnologia avesse portato i Sette Regni in una caotica anarchia, finché gli Hastur non avevano formato l'attuale sistema. Quanto alle Torri, esse rimanevano la massima fonte del potere dei Comyn, e la castità delle Guardiane serviva a evitare lotte dinastiche.
Aveva perso traccia del tempo, ma doveva essere ad Arilinn almeno da un mese, quando Neyrissa, alla fine di una seduta di addestramento, gli disse all'improvviso: «Penso che ormai potreste fare da monitore in un Cerchio, senza eccessive difficoltà. Se volete, posso farvi prestare il giuramento».
Jeff la guardò con stupore, e la donna, credendo che il suo stupore fosse dovuto a un'altra ragione, disse: «Se preferite giurare direttamente a Elorie, è vostro diritto, ma vi assicuro che in pratica non facciamo perdere tempo alla Guardiana per questo genere di cose; sono pienamente autorizzata a riceverlo io».
Kerwin scosse la testa e disse: «Non so nulla di giuramenti. Non me ne hanno parlato... non capisco!»
«Ma non potete lavorare nel Cerchio senza prestare il giuramento del controllore», gli disse Neyrissa, aggrottando la fronte. «Nessuno addestrato ad Arilinn si sognerebbe di farlo. E nessuno delle altre Torri sarebbe disposto a lavorare con voi, senza il giuramento. Perché non volete giurare?» Lo guardò con preoccupazione, e con il sospetto che sembrava scomparso dalla mente di tutti, tranne quella di Auster. «Avete intenzione di tradirci?» Passò qualche istante, prima che Kerwin capisse che l'ultima frase non l'aveva detta ad alta voce.
Quella donna, Kerwin comprese, doveva essere nelle Torri da più di vent'anni; tutt'a un tratto si chiese se avesse conosciuto Cleindori, ma non osò chiederlo. Cleindori aveva tradito Arilinn. E Kerwin sapeva che suo figlio non si sarebbe mai liberato da quella macchia, a meno che non imparasse a essere libero.
Rispose, lentamente: «Non mi era stato detto che avrei dovuto prestare giuramento. In generale, fra i terrestri non si usa. E non so che cosa dovrei giurare». E aggiunse, d'impulso: «Voi fareste un giuramento senza sapere di che cosa si tratta; senza conoscere gli impegni che vi assumete?»
Lentamente, dalla faccia della donna scomparvero il sospetto e la collera. Con un cenno d'assenso, Neyrissa rispose: «Credevo che sapeste, Kerwin. Il giuramento del controllore viene prestato anche dai bambini, quando si presentano a noi per l'esame. In futuro potranno chiedervi di prestare altri giuramenti, ma questo vi lega solo a principi fondamentali di comportamento: giurate di non usare la gemma matrice per costringere qualcuno a fare una cosa contro la sua volontà, di non entrare nella mente di chi non vi autorizza a farlo, di usare i vostri poteri soltanto per aiutare e per guarire, non per fare la guerra. È un giuramento molto antico, e risale ancora al periodo precedente le Epoche del Caos; alcuni dicono che fu introdotto dal primo Hastur, quando diede la pietra matrice al suo primo scudiero; ma questa è una leggenda, naturalmente. Noi sappiamo che ad Arilinn lo si presta dai tempi di Varzil il Saggio, e forse anche prima.» E terminò, con una smorfia: «Non c'è dunque niente, nel giuramento, che possa offendere la sensibilità di un Hastur, e tantomeno di un terrestre!»
Kerwin rifletté per un attimo su quelle parole. Era passato molto tempo da quando l'avevano chiamato terrestre l'ultima volta: dal suo arrivo laggiù. Alla fine, alzò le spalle. Che cosa aveva da perdere? Presto o tardi avrebbe dovuto rinunciare alle sue abitudini terrestri e seguire quelle darkovane: allora, perché non farlo subito? Si strinse nelle spalle. «Presterò il giuramento», disse.
Nel ripetere le antiche parole del giuramento — giuro di non costringere alcun essere vivente contro la sua volontà e la sua coscienza, di non interferire non richiesto nella mente e nel corpo salvo che per aiutare o per guarire, di non usare i poteri della gemma matrice per forzare la mente o la coscienza — rifletté sui grandi poteri della matrice nelle mani di un operatore addestrato. Il potere di interferire con i pensieri di una persona, di accelerarle o rallentarle i battiti del cuore, di fermargli il flusso del sangue, di togliergli l'ossigeno dal cervello... una responsabilità davvero terrificante, e Kerwin si disse che il giuramento del controllore doveva avere la stessa funzione che sulla Terra aveva il giuramento di Ippocrate.
Neyrissa aveva chiesto che il giuramento venisse pronunciato in rapporto mentale — era l'abitudine, aveva detto — e Kerwin sospettò che servisse per scoprire le riserve mentali: una sorta di macchina scopribugie, ma era una cosa talmente normale, tra i lettori del pensiero, che nessuno la vedeva come una mancanza di fiducia. Nel pronunciare adesso le parole e nel rendersi conto dei motivi che spingevano a chiedere quel giuramento (si accorse di prestarlo con convinzione) sentì più che mai la vicinanza di Neyrissa; in qualche modo gli parve che fosse accanto a lui, anche se la donna, in realtà, sedeva all'altro estremo della stanza, con la testa china sulla matrice, e non prestava attenzione a quel che faceva. Non appena Kerwin ebbe terminato, Neyrissa si alzò e disse: «Sono stanca di stare al chiuso; andiamo a prendere un po' d'aria. Avete voglia di montare a cavallo? È ancora presto, e nessuno di noi è di servizio ai relè. Vi piacerebbe cacciare con il falcone? Io sarei lieta di mangiare qualche uccelletto per cena, e voi?»
Kerwin mise via la matrice e seguì la donna. Aveva scoperto che gli piaceva andare a cavallo: sulla Terra era una bizzarria per pochi ricchi eccentrici, ma nelle Piane di Arilinn era il normale sistema di locomozione, perché le auto volanti, mosse dalle matrici, erano rare, e impiegate solo dai Comyn, e, per di più, unicamente in casi di particolare urgenza.
La seguì fino alle scuderie, senza preoccupazioni, ma lungo le scale Neyrissa disse: «Chiediamo anche agli altri se qualcuno vuole venire?»
«Come volete voi», rispose Kerwin, leggermente sorpreso. La donna non gli aveva mai dimostrato una particolare amicizia fino a quel giorno e Kerwin non pensava che avesse molto interesse a stare in sua compagnia. Ma Mesyr era indaffarata con qualche incombenza domestica in un'altra parte della Torre, Rannirl aveva qualcosa di complicato da fare nel laboratorio delle matrici — cercò di spiegarglielo, ma Kerwin non riuscì a capire neppure il venti per cento dei termini: non aveva una preparazione tecnica sufficiente — Corus era di turno ai relè, a Kennard faceva male la gamba e Taniquel dormiva perché più tardi era di turno ai relè. Così, alla fine uscirono da soli, perché anche Auster aveva immediatamente rifiutato l'offerta di accompagnarli.
Kennard aveva messo a disposizione di Kerwin un cavallo: una grossa giumenta nera delle sue terre; a quanto Kerwin aveva capito, i cavalli di Armida erano famosi in tutti i Regni di Darkover. Neyrissa aveva un pony grigio-argento, con la coda e la criniera fulve, venuto dagli Hellers. Prese il suo falco e lo posò sul blocco della sella, davanti a lei; la donna indossava un mantello grigio e rosso e una gonna lunga: nell'atto di montare in sella, Kerwin vide che in realtà si trattava di una gonna-pantalone. Era la prima volta che ne vedeva una. Quando il falconiere le diede il suo falchetto, Neyrissa guardò Kerwin e disse: «C'è un falcone molto docile, che Kennard ha lasciato a vostra disposizione; gliel'ho sentito dire».
«Non conosco i falchi», rispose Kerwin, scuotendo la testa. Aveva imparato a cavalcare passabilmente, ma non sapeva come si facessero volare gli uccelli rapaci, e non intendeva fingere di saperlo fare.
Alcune persone li fissarono con curiosità e mormorarono tra loro, mentre passavano per la periferia della città, ma Neyrissa non guardò nessuno. Kerwin pensò che non aveva ancora visto la città di Arilinn — che, a quanto gli avevano detto, doveva essere una delle quattro più grandi città dei Sette Regni — e si ripromise di uscire a esplorarla, un giorno o l'altro. Neyrissa aveva abbassato il cappuccio, e si scorgevano i suoi capelli rossi con qualche filo grigio, raccolti in due grandi trecce attorno alla testa. Dato che faceva già freddo, Kerwin aveva indossato la divisa terrestre e sopra di quella s'era infilato il mantello darkovano ricamato. Nell'ascoltare i mormoni, nel vedere le facce intimorite, comprese che lo scambiavano per uno dei membri del Cerchio della Torre. Era questo, si domandò, ciò che aveva pensato la gente di Thendara, la prima sera da lui trascorsa su Darkover?
Una volta superate le porte di Arilinn, la pianura si allargava in tutte le direzioni, con macchie di alberi qua e là, alcuni sentieri e un'antica strada carreggiabile, ora deserta. Cavalcarono per un'ora alla luce del sole ancora alto, e alla fine Neyrissa fermò il cavallo e disse: «Qui è un ottimo posto per la caccia. Dovremmo prendere qualche uccello, o un paio di conigli... Elorie è un po' inappetente, in questi ultimi tempi. Chissà se a stuzzicarla con qualche buon boccone...»
Kerwin aveva sempre pensato alla falconeria come a uno sport un po' assurdo, una cosa strana che si faceva per divertimento; per la prima volta, adesso, capì che in una cultura come quella di Darkover era un buon metodo per portare sulla tavola un piatto di carne. Forse, pensò, avrebbe fatto bene a imparare anche lui. Pareva una delle attività adatte a un gentiluomo — o anche, si corresse, guardando come Neyrissa sfilava il cappuccio dalla testa del falco, a una gentildonna — di Darkover. In genere non si pensava che una donna andasse a caccia per rifornire la dispensa, anche se, ovviamente, la falconeria era iniziata proprio così: un metodo per andare a caccia di animaletti da mangiare. E anche se una signora poteva incontrare qualche difficoltà con le prede più grosse, niente le impediva di uguagliare e anche superare gli uomini in quell'attività. Kerwin, tutt'a un tratto, si sentì profondamente inutile.
«Non preoccupatevi», disse Neyrissa, voltandosi verso di lui. Solo in quel momento Kerwin notò che erano ancora parzialmente in rapporto. «Imparerete. La prossima volta vi troverò un falco pellegrino. Siete abbastanza alto e robusto per portarne uno.»
Lanciò il falco in aria, e il rapace prese il volo, innalzandosi sempre più; Neyrissa osservò il volo, riparandosi con la mano gli occhi. «Ecco», disse, in un sussurro, «ha visto la preda.»
Kerwin provò a guardare, ma non vedeva traccia dell'uccello. «Riuscite davvero a vedere fino a quella distanza, Neyrissa?»
La donna scosse la testa con fastidio. No, naturalmente; il rapporto con i falchi e con gli uccelli-sentinella è una delle nostre doti di famiglia. La donna gli trasmise questo pensiero con solo una parte della mente, ma Kerwin, ancora in rapporto con lei, sentì il volo, le lunghe remiganti che battevano sull'aria, l'emozione della caccia, superiore a ogni altra, il mondo che girava sotto di lui, e poi, con un'onda di estasi che gli scorreva per tutto il corpo, l'avvistamento della preda... Scuotendo la testa meravigliato, Kerwin si impose di ritornare a terra, e seguì Neyrissa che aveva avviato il cavallo verso il punto dove il falco aveva deposto la preda. Neyrissa fece un gesto al falconiere che li aveva seguiti a distanza, perché scendesse di sella, raccogliesse il piccolo uccello morto e lo infilasse nel carniere; il falco si posò sul suo guanto e lei gli diede da mangiare la testa della preda, ancora calda. Neyrissa aveva gli occhi chiusi, il viso arrossato; Kerwin si chiese se anche lei avesse condiviso il piacere di quell'uccisione; a sua volta, Kerwin osservò con un senso di eccitazione e anche di repulsione il rapace che lacerava i muscoli e la carne della preda.
Neyrissa guardò Kerwin e disse: «Mangia solo quando è sul mio guanto; nessun falco bene addestrato assaggia la propria preda finché non gli viene dato espressamente il suo boccone. Basta, adesso...» strappò via dal becco feroce dell'animale gli ultimi bocconi di cibo, e spiegò a Kerwin: «Voglio che mi catturi un altro uccello». Lanciò nuovamente in volo il falco, e Kerwin seguì mentalmente il filo che lo collegava alla donna. Lo seguì senza vergogna, perché non era come spiare, perché la stessa Neyrissa si era aperta a lui facendogli condividere l'estasi del volo, il lungo tuffo, il colpo, il sapore del sangue...
Quando il falconiere portò a Neyrissa la testa della seconda preda, Kerwin notò qualcosa di nuovo, insieme all'eccitazione e alla repulsione: notò quanto fosse sensuale l'esperienza di condividere con Neyrissa quelle emozioni. Irritato, Kerwin si staccò dal contatto, per timore che la donna se ne accorgesse. Non aveva alcuna intenzione di sedurla... quella donna non gli piaceva neppure! E l'ultima cosa che desiderasse, laggiù nella Torre, era di complicarsi la vita con faccende di donne!